Liberi di domandare

“Tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra”, Il visconte dimezzato, Italo Calvino

Mohamed Ba, nell’intervista che ha concesso prima della serata, esordisce dicendo l’umano non è un algoritmo, e ancora, che l’uomo dovrebbe uscire dal suo paradigma antropocentrico. Nei suoi due monologhi, queste intuizioni diventano la cornice per il racconto dell’Africa dal punto di vista degli africani, non dalla sterile immagine che ce ne siamo fatti noi occidentali. E questo cambio di prospettiva, di paradigma, è stato uno dei fili principali (per richiamare l’allestimento del palcoscenico curato da Piera Rossi, lasciatasi ispirare da Reena Kallat in copertina del libro di Del Grande, Il secolo mobile) che hanno legato insieme le oltre cinquecento persone presenti al Fanfulla, lunedì scorso, per l’evento Liberi di partire, liberi di restare / Il secolo mobile (organizzato da Umanità Lodigiana all’interno della rassegna Lodi di Pace 2024).

Ma se non siamo algoritmi, se l’intelligenza artificiale non ci ha ancora soppiantato è perché in serate come questa non abbiamo ceduto il monopolio della domanda, precipuamente umano. Un cambio di paradigma è, in un certo senso – citando T. Kuhn –, la capacità di abbandonare le risposte più probabili che ci riportano come un elastico a rimanere imprigionati nello status quo. Quindi coltivare la creatività del domandare. Viceversa perché mai continueremmo a citare i filosofi dell’antica Grecia anche se molte delle loro risposte ci paiono errate? Ebbene perché le loro domande erano giuste!

E Gabriele Del Grande, parlando del secolo mobile intervistato da Elena Bulzi, si è prima di tutto riappropriato dell’arte di domandare. E noi spettatori? Ascoltando il vociare stanco a fine serata tutti erano d’accordo, ma d’accordo su cosa? Io vorrei rispondere: d’accordo sulle domande. Perché il tempo di digerire un cambio di paradigma penso sia la cosa più difficile, che richiede tempo, che richiede il mettersi in gioco per – con le parole di Del Grande – “decolonizzare il nostro pensiero” antropocentrico e, troppo spesso, anche eurocentrico. Come accogliere il nostro non essere più al centro? Le politiche europee e nazionali sono ancora vittime del vecchio paradigma, ostaggi della paura ancorati ad un’identità che guarda all’indietro e non al futuro.

Leggere e ascoltare Gabriele Del Grande ci ha permesso di focalizzare una domanda in particolare: cosa ci ha portati a spostare la linea del confine sulla linea del colore? Su quella della povertà? Evocando l’immagine dei falling men afghani e i cinquanta mila morti del mediterraneo:

“Io, una scena del genere, non la voglio più essere costretto a vederla. Né voglio che la vedano i miei figli. Se è così, tanto vale continuare a illudersi che i 35 milioni di immigrati non europei che vivono in mezzo a noi ormai da tre generazioni prima o poi se ne andranno. E che così faranno i loro discendenti. E che nessuno ci chiederà mai conto dei morti al confine. Tantomeno i nostri bambini. No. I nostri piccoli non ci accuseranno mai di avere le mani sporche di sangue. Al contrario impareranno presto da noi a trarre vantaggio dalla segregazione in frontiera. Senza porsi domande. Almeno fin quando non saranno loro a ritrovarsi col colore sbagliato della pelle dopo il definitivo tracollo dell’Occidente bianco. Forse soltanto allora capiranno gli errori della nostra generazione. Ma sarà troppo tardi. L’occasione per cambiare la storia è adesso” (Il secolo mobile, G. Del Grande)

di Luca Servidati

Ph credit Chiara Maisano

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