Dall’11 al 13 dicembre si è tenuto a Roma il Convegno Nazionale Immigrazione delle Caritas Italiane (CNI), a cui ho partecipato in rappresentanza di Caritas Lodigiana: il CNI si tiene una volta l’anno ed è un’occasione di formazione e di condivisione delle diverse problematiche riscontrate dalle Caritas diocesane all’interno dei loro territori.
Il primo tema affrontato è stato quello della cittadinanza italiana per i cittadini stranieri: grazie agli interventi di Manuela De Marco, Stefania N’Kombo, Jacopo Ferrari e Oliviero Forti abbiamo potuto avere una fotografia chiara della situazione degli stranieri di seconda (e terza) generazione, del bisogno e dell’importanza di avere la cittadinanza italiana: non tanto per un bisogno di integrazione, essendo nati in Italia non hanno necessità di integrarsi – questa è la loro terra, la loro casa – il bisogno della cittadinanza si ricollega invece all’avere gli stessi diritti dei loro pari, come ad esempio poter votare, un diritto che spesso si dà così per scontato. Attualmente la richiesta di cittadinanza italiana per i cittadini stranieri nati in Italia è lunga e tortuosa, ciò che aiuterebbe a snellire la pratica sarebbe l’introduzione dello Ius Scholae, grazie a cui si potrebbe richiedere la cittadinanza italiana dopo dieci anni di scuola dell’obbligo garantendo così la possibilità, a chi già si sente in tutto e per tutto italiano, di esserlo anche sulla carta. Nota di merito per un piccolo comune nel bellunese: a fronte di una popolazione di circa trecento abitanti ha ricevuto più di cinquecento richieste di cittadinanza da parte di cittadini sudamericani con discendenza italiana. Ebbene sì, attualmente è possibile richiedere (ed ottenere) la cittadinanza italiana senza conoscere la lingua e senza aver mai messo piede in Italia, semplicemente dimostrando che il proprio tris nonno era italiano, assurdo vero?
Il secondo tema trattato è stata una formazione legale tenuta da Oliviero Forti sul nuovo Patto Europeo su Immigrazione e Asilo: senza dilungarmi troppo si può riassumere in un rafforzamento dei controlli e delle identificazioni di cittadini stranieri alle frontiere europee, nella limitazione dei movimenti di quest’ultimi all’interno del territorio statale e nella solidarietà obbligatoria tra gli stati membri che si traduce nell’obbligo di una redistribuzione tra stati dei migranti, o in caso di rifiuto ad accogliere nuove persone l’obbligo di versare un corrispettivo economico allo stato membro che accoglierà i migranti in oggetto.
In ultimo è stato dedicato un pomeriggio al confronto sulle diverse problematiche che ogni Caritas si trova a dover affrontare: in un primo momento siamo stati divisi in tavoli, con l’obiettivo di rispondere ad alcune domande che sono state poi condivise con l’intera platea. Ciò che è emerso è che i bisogni dei territori sono spesso gli stessi, magari declinati in modo diverso: in primis, in tutta Italia, l’assenza di disponibilità di soluzioni abitative per i cittadini stranieri, anche in presenza di un contratto a tempo indeterminato e di garanzie, non ci sono case, non si trovano e non c’è alcuna disponibilità, mettendo così spesso a rischio il percorso di integrazione e di autonomia delle persone.
Un’altra problematica emersa soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud è l’arrivo massiccio di studenti di origine africana a cui sono state promesse da diverse Università italiane borse di studio e alloggi universitari: questi ragazzi arrivano in Italia con un regolare visto di studio, ma a causa delle lungaggini della burocrazia italiana e dei Consolati spesso non riescono ad avere rapidamente tutti i documenti necessari per completare la loro pratica, trovandosi così esclusi dalle graduatorie per l’assegnazione di borse di studio ed alloggi, e quindi senza una soluzione abitativa: questo ricade poi sulle varie Caritas di riferimento, a cui i ragazzi si rivolgono in cerca di aiuto.
Molto spesso, infatti, le soluzioni che possono fornire le Caritas non sono adeguate ad uno studente, rendendo così molto complicato fornire una risposta efficace ai loro bisogni che comunque, come già detto, dovrebbero essere a carico degli Atenei che li hanno “reclutati” per far numero all’interno dei loro corsi di studio. Ovviamente sono emerse molte altre criticità e difficoltà ma ci tengo a fare un ultimo accenno ad una situazione comune a tutte le Caritas che gestiscono Centri di Accoglienza Straordinari (CAS): l’invio, da parte della Prefettura di competenza, di persone vulnerabili a livello fisico e/o psichico, persone che necessiterebbero di cure ed attenzioni costanti e adeguate ma che difficilmente sono conciliabili con la vita all’interno di un CAS.
Come Caritas abbiamo sempre tenuto fede al nostro mandato di carità e aiuto dei più vulnerabili, facendo il possibile – e a volte l’impossibile – per tutelare ed aiutare queste persone, pur con risorse molto limitate, ma la domanda che sorge spontanea è: oltre ad innalzare e fortificare frontiere per respingere chi arriva via terra o via mare, non dovremmo anche fare una riflessione sul nostro modello di accoglienza e su come garantire dignità e diritti basilari a tutti?
Elisa Clarà
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