In estate nei centri di accoglienza c’è un gran via vai, le persone arrivano nelle strutture a cui sono state assegnate dove trovano un letto per riposare, cibo per rifocillarsi, abiti, sorrisi e il calore di un benvenuto in una terra lontana da casa raggiunta a gran fatica. Si arriva e molte volte si riparte velocemente perché l’Italia non è la fine del viaggio, è una tappa, un passaggio obbligato per raggiungere la Francia, il Belgio o il nord Europa, ognuno con una propria storia e diverse motivazioni; in accoglienza si prendono contatti, ci si organizza e poi si continua il percorso migratorio. Questo e altri aspetti delle migrazioni non sono molto conosciuti: parlandone con persone non addette ai lavori mi sono resa conto che c’è una rappresentazione e un’idealizzazione talvolta distorta.
Il fenomeno migratorio è sicuramente complesso, come vengono diffuse le informazioni fa sicuramente la differenza. I mezzi di comunicazione svolgono un ruolo cruciale nella formazione dell’opinione pubblica, focalizzarsi sul negativo senza controbilanciare con storie positive porta ad una distorsione della realtà. Possiamo quindi raccontare le migrazioni in diversi modi, ad esempio attraverso le immagini degli oggetti che i migranti lasciano nel centro d’accoglienza.
Quando noi operatori arriviamo in accoglienza al mattino, scopriamo se qualcuno all’alba se n’è andato: si apre la stanza e si trovare il posto vuoto, questo lascia un misto di emozioni, di domande, la speranza che possano arrivare ad avere una possibilità di riscatto nella vita e di aver svolto il nostro lavoro di cura in maniera onesta e puntuale anche se per un breve periodo.
Cosa lasciano nelle stanze le persone che se ne vanno? Tutto ciò che non è necessario, che è di intralcio agli spostamenti, tutto ciò che rappresenta oramai il passato perché è solo del presente che ci si deve preoccupare.
Nelle stanze ho trovato: vestiti, servono solo quelli che indossano, monete testimonianza di paesi che hanno attraversato, caricabatteria del cellulare, giacche impermeabili che hanno usato per proteggersi dal freddo della notte nell’hotspot a Lampedusa perché “c’era tanta gente e abbiamo dormito all’aperto con questa giacca che ci hanno dato”, tessere della Croce Rossa, numeri identificativi, braccialetti di carta con la data e il numero dello sbarco segno dei primi soccorsi, l’ecografia che un medico di Lampedusa ha fatto ad una donna incinta. Questi oggetti rappresentano infinite storie e raccontano parte di un fenomeno che rappresenta il nostro tempo.
Le persone arrivano al centro d’accoglienza a cui sono state assegnate dalle prefetture, con pochissime cose, i vestiti che indossano e una borsa con i beni di prima necessità consegnata dai primi soccorritori. Gli occhi spaesati e la stanchezza, la gioia di essere arrivati sani e salvi sulla terra ferma, la paura dell’ignoto, tutto si annida e si riflette nei loro occhi. Dopo il benvenuto gli si dà la possibilità di riposare, di lavarsi, di mangiare, di prendere consapevolezza del qui ed ora in cui si trovano; gli altri ospiti della struttura, sono la maggior fonte di informazione e l’unico elemento affine in un paese nuovo. Fondamentale per chi ha uno smartphone, che è riuscito a nascondere ai trafficanti e a non far cadere in mare, è avere presto un collegamento internet per mettersi in comunicazione con i famigliari o con le persone che faranno proseguire loro il viaggio.
Mentre scrivevo queste parole, ho ripensato ad un libro di Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano, parla dell’esperienza che il giornalista ha vissuto in Corea dove, per disincentivare i suicidi, fanno vivere alle persone l’esperienza del proprio funerale, ci si spoglia di tutto e si viene chiusi in una bara per il tempo di una riflessione in merito alla propria vita, Romagnoli ha iniziato a riflettere sulla moderazione, sull’indispensabile, cosa ci si porta in un viaggio in cui il solo bagaglio possibile è un bagaglio a mano, una piccola borsa che impone di selezionare attentamente cosa portare. La valigia diventa una metafora dell’esistenza che vede nel “perdere” una forma di ricchezza, si ascoltano i bisogni necessari, si viaggia leggeri per viaggiare liberi.
Certamente non possiamo paragonare le esperienze dei viaggi di Romagnoli e il suo manuale per un perfetto viaggiatore con le vicissitudini dei migranti che devono intraprendere un viaggio pericoloso, abbandonare il proprio paese e la famiglia alla ricerca di salvezza, eppure un punto di incontro c’è: l’insegnamento della vita a “fare senza” e andare avanti, resistere per migliorare.
Una delle tante cose che mi hanno insegnato le persone che migrano è l’importanza di tenersi vicino solo ciò che è necessario, il lasciar andare, lasciar correre, attraversiamo la vita tenendoci stretti persone, pensieri negativi e oggetti che ci appesantiscono, ci rallentano, dobbiamo imparare ad abbandonarli nella ricerca di una felicità leggera, non banale, solamente priva del futile.
Sara Benedetti, operatrice Caritas presso Casa San Giacomo
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