Caro Mamadou, per noi non eri solo un numero. Venivi da un paese che si chiama Mali, nella parte nord ovest dell’ Africa, sotto il Sahel. La gente di quei luoghi è tenace, forte: sarà per effetto del sole, che batte senza sosta in una terra arida, pressoché pianeggiante, senza sbocchi sull’oceano e senza grandi foreste. Però ci sono falesie nella terra dei Dogon, incontaminate e selvagge, che mi piacerebbe tanto vedere…
Prendo in prestito le parole di un professore messinese che scrive:
“Nel medioevo europeo il potente e ricco impero del Mali era ben conosciuto,con le sue miniere d’ oro a cielo aperto, e le più antiche carte dell’ Africa, disegnate a partire dalle informazioni dei navigatori e dei commercianti, raffigurano il suo re Kankan Moussa, al di là del deserto,di un fiume e di una catena di montagne: il mito della distanza e dell’ inaccessibilità fu rotto definitivamente, per gli europei, solo dagli esploratori dell’ ottocento. A quell’epoca però,dei grandi imperi dell oro restavano solo rovine e la tradizione orale, tramandata dai cantastorie,che in questa parte dell’ Africa sono i veri archivi storici,le vere ‘biblioteche non scritte’. In tutta la regione rimane ancor oggi una solida civiltà contadina conscia delle proprie tradizioni, capace di costruire città e moschee di una bellezza incredibile usando l’argilla cruda”.
Ed io ti immagino proprio provenire da uno di quei villaggi di argilla cruda, dove il tempo si ferma e la vita è scandita dal ritmo delle due stagioni, dai bambini che crescono,dal Karite’ che si fa maturo. Immagino il profumo della pelle delle vostre donne, ancora più nere perché il sole batte senza sosta, senza ombra degli alberi, che si spalmano il burro di Karite sul corpo e si scambiano ricette segrete per una cosmetica cento per cento naturale.
Tu avevi spalle larghe e braccia possenti ma eri solo un giovane uomo. Ultimo di tanti fratelli e sorelle, sei arrivato in Italia 3 anni fa, chissà se tu lo volessi veramente o se fosse l’ amore ed il desiderio di riscatto che volevi dare alla tua famiglia. Parlavi solo Bambara, la tua lingua madre, e ti destreggiavi con il francese senza riuscirci poi molto. Così avevi scelto, o ti era stato assegnato, un compagno di stanza più grande di te che ti aiutava con la lingua e ti insegnava,per quanto possibile, usi e costumi di questo nuovo mondo. Era il tuo Koro’, il tuo fratello maggiore.
Era impossibile arrabbiarsi con te, eri disarmante, mi disarmava la tua innocenza. Indossavi vestiti troppo larghi per il tuo corpo magro e scarponcini presi in prestito dal tuo compagno di stanza. Non sapevi giustificarti. Entravi in classe in ritardo perché avevi perso il bus ma non sapevi spiegare il motivo. Ti eri alzato alle 5 di mattina a pregare e poi il bagno occupato ti aveva fatto perdere il bus delle 8… Non si capiva mai cosa tu facessi in quelle due ore di tempo..una lunga vestizione, ti profumavi per venire nella scuola Caritas..Era un privilegio Per te poter apprendere,avere il tempo per studiare.
Ti arrabattavi in questa nuova vita, cercando ogni genere di lavoro, anche ad orari improponibili. Ti spostavi con la tua bicicletta. Ma non avevi malizia ne astuzia per proteggerti da questi ambienti di lavoro. Chissà se quel male che avevi dentro tu l’ abbia preso qui. Ti ha fatto ammalare la nostra civiltà del progresso?
Sei venuto così da lontano,con un viaggio troppo lungo e pericoloso,ma sei sopravvissuto.
Sei morto in un letto di ospedale,di questo nuovo mondo, per un’ epatite.
Quando la malattia ha iniziato a manifestarsi capimmo subito che sarebbe stata aggressiva. E ti rubò al lavoro, all’accoglienza, per costringerti in ospedale, senza contatti, in un ambiente asettico. Solo.
Eri solo.
Ti spedivamo messaggi ai quali rispondevi e ringraziavi sempre per averli ricevuti. Ma non sapevamo e non potevano esserti vicini diversamente. La tua pancia si gonfiava di giorno in giorno e mi chiedesti, qualche giorno prima di morire, che avresti voluto sapere il giorno ed il mese in cui tutto questo sarebbe finito. Non feci in tempo a risponderti che ti intubarono.
Mi dispiace Mamadou, mi dispiace così tanto che sia andata così, avevi ancora una vita davanti.la tua malattia si è manifestata nel periodo più brutto e ti ha strappato alla vita senza ragione, solo per immane sfortuna. Mi dispiace che tu sia stato solo in quell’ospedale. Mi dispiace che tua Madre fosse così lontana.Forse eri l’unica sua scommessa vincente. Ti avrei immaginato tra qualche anno ritornare in Mali, sposarti e concepire un figlio.portare avanti la tua progenie, tentando un riscatto sociale. Ed invece cercheremo il luogo migliore dove seppelliti, con rito mussulmano. I tuoi amici stanno preparando una colletta da spedire alla tua mamma, ci stanno provando, ognuno da’ ciò che possiede, ciò che si sente. E riposerai all’ombra di un castagno o di un tiglio, in una terra straniera, lontana dal tuo Mali. Al posto del Karite’ spero che ogni primavera ci siano i fiori di Tiglio a risvegliare i tuoi sensi assopiti dal lungo inverno.
Se invece andrà bene, il tuo corpo sarà spedito in Mali e tua madre riuscirà ancora ad abbracciarti.
Nella solitudine e nella distanza dai tuoi affetti più cari, noi abbiamo cercato, con questa lettera, di tenere vivo il ricordo di te. Ti abbiamo incontrato, Mamadou Fane. E per noi non sei mai stato solo un numero.
Ti ritroveremo nella terra che calpestiamo, nei volti che incontriamo e nelle stelle di quell’unico nostro cielo.
Buon viaggio.
Giulia Bré
Operatrice Equipe Rifugiati Caritas Lodigiana
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