Capitolo 16: Mamadou Lamine Seye

  • 18 Dicembre 2023

Il 24 dicembre verranno pubblicati l’ultimo capitolo e l’epilogo di questo progetto narrativo di Ermanno Merlo. Ricordiamo a tutti i nostri lettori che è possibile ordinare il libro – “E poi soli di sabato in questa città” di Ermanno Merlo – grazie ai Regali Solidali di Caritas. 

Ismaele è nato. In una calda notte d’agosto, dal grembo fecondo di mamma Clara è venuto alla luce un batuffolo di pelle color cappuccino. Ha aperto gli occhi e ha pianto. Di lacrime con il sorriso che sembrano contenere il mondo intero, che sono la forza vitale dei primi istanti di respiro, dopo essere stato nove mesi un tutt’uno con chi l’ha generato. Non c’è miracolo più grande della nascita, della nuova speranza che si crea, del coraggio che bisogna avere per guardare agli altri. Mi arriva una foto sul telefonino da parte di Clara “ti presento Ismaele”. Questo viso ancora pallido che, mi spiega Giselle “non preoccuparti poi crescendo diventa senza dubbio molto più scura la pelle. Hai visto suo papà Malik? È ancora più nero di me”. È un sentimento che mi toglie il fiato, che lascia sul viso un’espressione felice; quello di una nuova famiglia, di chi è in grado di ricercarsi, viversi e ascoltarsi nel mondo che è dialogo, incontro, relazione, partecipazione.

Nella voce trasparente e sottile di Clara, nello sguardo delicato di Malik, nel suo sentire pieno, ritrovo il filo che tesse i ricordi. Immagino Ismaele crescere e diventare e penso che forse un giorno, quando lui vivrà la sua giovinezza e io in pieno l’età adulta, potrò essere il suo insegnante di Religione, di Filosofia, al Liceo. Ritrovando così quello che si perde sulle vie di passaggio dell’esistenza. È una mattina calda. Le previsioni del tempo annunciano ancora qualche giorno di temperature estreme e poi temporali che dovrebbero metaforicamente segnare la fine dell’estate. Quest’oggi prima di andare alla Mensa devo incontrare Mamadou Lamine Seye, giovane senegalese, conosciuto proprio in Via XX Settembre, tra il pane spezzato e un piatto caldo. Ha un appuntamento in questura per rinnovare il permesso di soggiorno, così decidiamo di incontrarci lì davanti, nel piazzale che si appoggia dolcemente su Via Defendente. Mamadou adesso non viene più in Mensa, grazie al lavoro che ha trovato come magazziniere, ha una casa a Borghetto e sta cercando di costruire una vita normale. Capita però qualche volta di vederlo ancora sbucare dalla porta di legno e allora il cuore si dipinge di un’emozione nuova, gli occhi di luce e il profumo dell’Africa si fa intenso. È alto, altissimo, una barba fitta circonda il viso e le pupille di cenere si aprono in un abbraccio con l’anima. Si riconoscerebbe anche se camminasse in una piazza gremita di persone, perché la sua testa sbucherebbe sempre fuori dalle altre. Un ragazzo che scrive le pagine tra sogni e possibilità. Si muove con la sua bicicletta elettrica e un casco rosa fluo che tiene in testa anche quando è seduto alla Mensa a mangiare. “Ehi caschetto d’oro” gli dice Luigi ridendo, mentre lo osserva, seduto di spalle che parla con altri amici africani. Mamadou è nato il 3/05/1987 a Kaolack, Gniby in Senegal.

È arrivato in Italia il 15 luglio 2022 e, anche se è qui solo da un anno, parla discretamente l’Italiano. “Io l’ho studiato, la prima cosa che ho fatto quando sono arrivato in Italia è stata piano piano apprendere la lingua” mi racconta, mentre mi fa vedere che sul telefonino ha scritto alcuni verbi coniugati in tutti i tempi. Un grande impegno e sacrificio, soprattutto quando al giorno d’oggi esprimersi correttamente in Italiano non è poi così scontato, per tutti. Ci appoggiamo a una delle due travi di metallo che sorreggono la struttura degli uffici della questura, davanti alla porta uomini, donne e bambini spingono per entrare. “Passaporti? Per di qui!” grida uno che la apre leggermente facendo passare solo quelli che sono venuti per rinnovare o per fare il passaporto. Gli stranieri vengono invitati ad aspettare fuori sotto il sole. Io inizio a prendere appunti ascoltando le parole di Mamadou, ma vedo che si vergogna un po’ e mi chiede ripetutamente cosa io stia facendo, così preferisco lasciare perdere. Metto via la penna e il foglio di carta e penso che per questa volta cercherò di tenere tutto a mente, le parole, i versi e le emozioni. “Il Senegal è bellissimo. C’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, ma la Francia ha sempre sfruttato i nostri territori: il gas, gli ori ecc… Siamo stufi – prosegue – ti faccio una promessa. Se dovesse diventare presidente Ousmane Sonko tornerei a vivere in Senegal assolutamente. Non è giusto che le persone debbano essere costrette a scappare, a lasciare la propria terra”. Ha ragione Mamadou e non avrei saputo dirlo meglio. C’è nelle sue parole il desiderio di rivalsa contro chi da secoli si approfitta delle risorse di un continente lasciando in povertà i suoi abitanti. Sono le regole del gioco dell’imperialismo, ma quello che comporta non è più accettabile. Si vede nella violenza delle manifestazioni a Dakar, nei sassi lanciati sulle porte dell’ambasciata francese in Niger, nelle persone che muoiono annegate nel Mediterraneo.

Io in Senegal lavoravo in un negozio come quelli che ci sono qui in Italia per mandare soldi all’estero e riceverli. Poi mi occupavo anche di creare applicazioni”. Mi mostra sul telefono le telecamere del negozio “ancora adesso posso controllare quello che succede da qui, se mia moglie è già arrivata al lavoro, per esempio” mi dice orgoglioso. A Mamadou è sempre piaciuta l’informatica, la matematica, perché è come se fosse una regola giusta per concepire il mondo, per risolvere qualsiasi tipo di difficoltà. “Ancora più filosofia della filosofia stessa” gli faccio eco io mentre ripenso ai limiti, allo studio di funzione, alle equazioni, alla matematica come regola dell’essere. Una disciplina che coniugata allo studio della filosofia continua ad aiutarmi a cercare una risposta. “Non ho fatto l’università – continua – solo una scuola arabo – francese. Poi, mio papà non ha più voluto che studiassi, così abbiamo preso un’insegnante privata per fare lezione da casa. Poi sono partito per l’Europa”. La sua prima destinazione era la Spagna, ma quando è arrivato all’aeroporto, non l’hanno fatto passare “Sono stato lì cinque giorni in attesa di una risposta, poi dopo aver analizzato i documenti e la mia situazione, il giudice ha deciso che non sarei più potuto stare lì”. Si ricorda ancora circondato dai poliziotti che lo rispediscono con il primo volo a Dakar “mi trattavano come se fossi un criminale”. Una volta tornato in Senegal però non si è perso d’animo e Mamadou ha deciso che sarebbe stato giusto venire da suo fratello a Lodi. Così è accaduto: “Sono arrivato qui con l’aereo e grazie a un amico sono venuto a contatto con la Caritas che mi ha dato un posto dove dormire e del cibo”. Ancora “La mensa è un luogo d’incontro, speciale per me. Ho conosciuto amici come Diamanka, ma soprattutto Amidou”. Li ricordo cercarsi quando uno dei due arrivava alla mensa per primo, mi chiedevano “Ermanno lo hai visto, per caso?”. Il simbolo di un tempo che si rinnova con il continuo divenire, che è strada verso domani di fiato. Anche se tutto è incertezza e quello che abbiamo svanisce. Non ho certezze, non riesco ad avere in tasca la verità, ma invidio chi invece ha tutte le risposte, chi si crede padrone del mondo e continua ad avere la determinazione di sentirsi invincibile. Anche se ne ho un po’ paura. Nessuno veramente ha tutta la terra sotto i piedi, siamo migranti dell’esistere, giorni caduti come foglie d’autunno. Me lo spiega anche Mamadou “nessuno di noi può sapere tutto, l’unica cosa certa che abbiamo è la fede. Cioè credere e sperare che dopo la morte si apra a una vita nuova. Tu ci credi?”. “Certo Mamadou” gli rispondo. “Bravissimo, è così che deve essere per tutti, siamo soli, fragili e quello che abbiamo non ci basta, ma sono sicuro che Dio sarà l’unica speranza salvifica per l’uomo nel mondo, per chi non ha niente. Non smettere mai di credere, di pregare”. Intanto ci spostiamo davanti all’altro ingresso dove deve aspettare che lo chiamino per entrare e ci sediamo sugli scalini che portano alla sala Bingo. Stiamo un po’ in silenzio. Poi, prende il telefono e inizia ad ascoltare uno Cheick senegalese che recita alcuni versi del Corano, intanto gli fa eco pregando in Arabo. Già che oggi è venerdì, penso tra me e me.

Poi chiude gli occhi e dalla bocca esce il canto del profeta. Osservo le sue mani grandi, in grado di tessere i fili del tempo. È vero che in Africa l’Islam è qualcosa che si vive e si sente profondamente nel cuore: “Se tu vai in Senegal non riesci a distinguere i musulmani dai cristiani, questo perché sono due religioni che vanno di paripasso. Non serve a niente farsi la guerra se l’obiettivo e il fine è sempre e comunque Dio”. Poi continua a recitare alcuni versi della Surah più lunga del Corano Al Baqarah “Non è facile saperlo a memoria il libro Sacro – spiega – perché ci sono moltissimi versetti uguali in tanti capitoli e confondersi è semplice”. Quanto manca il Senegal a Lamine, con le cicatrici profonde che fanno fatica a rimarginarsi e con i sogni che prendono il volo. L’Africa nera calda di terra e di mare, di sabbia e malinconia. “La prima cosa che ho capito quando sono arrivato in Italia è che non c’è la stessa condivisione Africana. Qui per la strada se non ci si conosce non ci si saluta, mentre nella mia terra non è così. Assalamu alaikum lo diciamo a chiunque. È un segno di rispetto. Qui invece se dovessi farlo mi prenderebbero per matto”. C’è un desiderio diverso di condividere, un modo per ritrovarsi sui cammini del vivere “Nessuno resta da solo, infatti per esempio se i ragazzi finiscono alla sera di giocare a calcio poi vanno tutti insieme a mangiare a casa di uno di loro. Le mamme lasciano sempre dei posti in più perché chiunque arrivi possa sedersi e mangiare insieme, dallo stesso piatto”. “Il mio sogno è quello di avere una casa a Lodi e poterci vivere con la mia famiglia, mia moglie e mia figlia e poi magari con una nuova fidanzata italiana…” Mi guarda e sorride Mamadou. Sa che capisco il suo cercare e vivere in queste speranze, anche se spesso non si viene ricambiati per il proprio amore e non conta cercare. Di cosa abbiamo bisogno, quale speranza può costruire l’uomo?. Poi resta in silenzio, mi guarda e mi chiede “Tu fumi?”. “Certo che no Mamadou, come mai?”. “No? Veramente?”. “Certo”. “Io penso che tutti gli italiani fumino, ma non è così, menomale. Sono contento”. “Come mai dici così?” gli chiedo. “La prima volta che sono arrivato alla Stazione Centrale di Milano e ho preso il treno per venire qui a Lodi, ho visto una massa di gente tutti con la sigaretta in bocca.

Il fumo, la polvere e l’aria irrespirabile. Non avevo mai osservato niente di simile, perché chiaramente in Senegal non succede questo. Dio non ha detto di fumare e di bere, sono cose che ci allontanano da lui, dagli insegnamenti del profeta, dalla speranza di salvezza. È qualcosa che toglie il respiro. Sono contento che tu non lo faccia”. In questo ricordo infantile c’è tratteggiata tutta la sua esistenza, il silenzio, le attese, i ricordi, il tempo della mente che scardina ogni certezza, che ci dona insicurezza e fragilità. Quello che abbiamo è la polvere tra le mani sudate di sete e il cuore appeso sui fili dell’esistere. Mamadou è come un regalo, uno di quelli che la vita ti fa, anche se si fa fatica a riconoscerli, perché la vista è annebbiata dall’incertezza. Un dono silenzioso, che arriva senza farci caso. Seduti sugli scalini davanti alla questura, cercando di evitare il sole cocente.

Sono quelli di ascoltare e sentire un nuovo cuore pulsare e un’anima prendere fiato: Ismaele e la sua famiglia. Il tempo di cullare una nuova vita è arrivato, quello di ascoltare il suo pianto, di prenderlo per mano quando farà i primi passi, di ascoltarlo quando avrà bisogno di essere accompagnato da qualche parte o di raccontare quello che vorrà raccontare. Quando ci saranno i silenzi e i sorrisi. Non sappiamo quello che abbiamo nel profondo del nostro esserci, solo il sole che cede al tramonto e l’Africa terra del grano. Intanto le ore passano ed è arrivato il tempo di andare alla Mensa, devo salutare Mamadou. Gli do appuntamento alla Mensa tanto dice “spero che a mezzogiorno avrò finito qui, così da poter venire”. Poi mentre gli suona il telefono mi allontano sulla strada. Scrivo così guardando la folla di gente ancora accalcata davanti alle porte di vetro della questura, ripensando a Lamine e alle sue parole così vive in Dio, nell’anima, nelle radici dell’Essere e del ricordare. Scrivo sui letti abbandonati delle case senza nome, negli occhi vuoti degli uomini in fila alla ricerca del pane.

Verranno insieme ad Alì dagli occhi azzurri in quella poesia profetica di Pier Paolo Pasolini che lo aveva già scritto in Poesia in forma di rosa nel 1962, con parole che ancora oggi in modo profondo si stagliano sulla tela della vita, si raccolgono nella certezza di essere nella migrazione eterna dell’anima, clandestini in cerca di salvezza, di un semplice porto sicuro. Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Sbarcheranno a milioni vestiti di stracci, i figli dei figli, nei regni della fame.

I giorni che si perdono nel dolore, nella sofferenza e nell’accoglienza come unico legno di salvezza. L’immigrazione non è nient’altro se non un fenomeno che è sempre esistito. Nessuno di quelli che se ne vanno dai loro paesi vorrebbe farlo, ma non ha altre alternative. Resta il segreto da svelare, quello che è nella parole di Pasolini, nella stretta di mano di Mamadou, nel suo racconto di vita che all’inizio in modo timido, poi sempre più profondo diventa un modo per dire che ci siamo. Senza falsi moralismi, ma con la consapevolezza di essere in eterno viaggio per il domani, alla ricerca del sole.

Tunisi, Turchia, Costa d’Avorio Veli d’estate su teste di Africa calda di sole collane d’argento ultime foglie d’autunno di vento Sorridi che il tempo non muore in fila alla legge che affida il destino il tuo pezzo di carta del cuore. Cerca il coraggio, vestito di sale, che non abbiamo più niente.

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