Capitolo 10: Nostalgie

  • 7 Novembre 2023

È domenica. Bestiale, come quella di Fabio Concato, insomma… Ma piena di sorprese sicuramente. Abbiamo deciso con Nicole e Omolayo, due amici, di passare una giornata insieme. Nella mattinata Omolayo vuole andare insieme a me nella Chiesa Nigeriana, dove si professa il culto pentecostale, nel pomeriggio invece c’è spazio per una spedizione sul Trebbia, al di fuori dei confini lodigiani. “C’è l’Adda che è così tanto bella, perché andare fino a Bobbio?” penso io, ma è anche giusto fare questo tipo di esperienze e, così com’è stato, riconoscersi nei valori dell’amicizia e della condivisione. Non è la prima volta che partecipo a una delle loro celebrazioni, ma c’è sempre da stupirsi. Ci sono dei momenti profondi come il canto e la preghiera e altri più movimentati, come la benedizione con il santissimo olio d’oliva che pare sia riuscito anche a far camminare un uomo diversamente abile o come quando il pastore inizia ad urlare nel microfono mentre tutti lo seguono, muovendo le mani, agitandosi e picchiando sulla batteria con vigore. Sembra quasi un rito purificatorio piuttosto che uno religioso. Ma è interessante immergersi anche in questo tipo di possibilità per capire veramente l’altro, per riuscire a entrare in sintonia con le culture che non sono proprio così vicine alle nostre.

Mentre siamo seduti e immersi nelle parole del pastore, nel silenzio della sala, suona il mio telefono. “Caspita – penso – ho dimenticato di togliere la suoneria” così Guccini e la sua Incontro risuonano nella stanza. Lo prendo velocemente per abbassare il volume e poi guardo chi è. È Giselle. Non posso non rispondere. Così mentre mi chino dietro a una sedia per non farmi vedere attacco la conversazione “Pronto Giselle” “Ciao Ermanno, come mai non sei qui?” “Ma non era il mio turno oggi – le dico, mentre penso di aver dimenticato una data aggiuntiva datami da Pito”. Lei controlla poi mi dice “Hai ragione” e tiro un respiro di sollievo. “Però… non è che potresti venire lo stesso? Ci sono solo due volontari”. Mi guardo intorno. Un africano alto, mi spinge violentemente da dietro dicendomi di stare zitto, ha dei rasta lunghi e una grossa collana d’argento con la croce di Gesù al collo. Capisco che è meglio non controbattere e che anche se ormai sono le 12:10 posso comunque andare a dare una mano. Così spiego a bassa voce a Omolayo che devo abbandonarlo, mi alzo, mentre il pastore si ferma e mi guarda con un’espressione gelida.
Poi mi fa cenno con la mano: mi ha dato il permesso. Così a passo veloce mi dirigo fuori dalla sala, ma inciampo inavvertitamente nei miei pantaloni e vado a sbattere contro la porta. Cercando di non dare più nell’occhio, di quanto non abbia già fatto, la apro e vado via senza voltarmi indietro.

Sono in Via Pace da Lodi e devo arrivare in Via XX Settembre. Un bel pezzo a piedi, ma come posso fare altrimenti? Così le passo una dopo l’altra Via San Bassiano, Via Ottone Morena, Via Cavour e Corso Roma, la gente mi guarda un po’ stupita. Dove starà mai andando? Ma non c’è tempo per farsi domande, nemmeno per ricordarsi della propria profondità appassita. Arrivo davanti al portone, mentre Jimmy sta già uscendo per prendere la bicicletta “sei in ritardo – mi dice – vai vai che ti sgridano”. Così entro e mi guardo intorno. La confusione regna sovrana, c’è ancora qualcuno che si gusta il pranzo e altri che hanno già finito e consegnano i vassoi sporchi a Giselle che li raggruppa a poco a poco portandoli nel cucinotto. Una montagna. Così ci mettiamo di buona volontà, insieme a Fabrizio e Silvana e portiamo a termine il servizio. Non c’è tempo neanche per i saluti, per ricordarsi, per stringere qualche mano. Solo Amidou, di sfuggita, da lontano. Mentre passa e va via. Mando giù qualche chicco d’uva e poi ritorno sulla strada, verso casa di Nicole e Omolayo, con cui devo farmi perdonare per essere scappato di corsa.

Ma sento che certe volte bisogna lasciare spazio all’istinto, alla propria ricerca ultima di dire che ci sono delle priorità, dei modi d’essere e di relazionarsi agli altri. Così la Mensa torna anche oggi, fa capolino tra i ricordi, smuove le mie giornate che, altrimenti, sarebbero troppo lente e vive nella quotidianità. C’è bisogno di questi colpi di scena, di questi modi per ricordarsi negli altri e con gli altri, nello stesso percorso di crescita, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si fa fatica a trovare una direzione. Lo scopo che abbiamo o almeno quello che desidero è continuare a stare a contatto con quello che siamo, con la nostra profondità di spirito, come in una Chiesa Nigeriana tra canti e fiumi di olio d’oliva, come macchie sulle magliette pulite e nella Mensa dove tutto risorge, tra la vita e il profumo dei fiori, i campi, la terra e le spighe di grano con il sole. Lì tra la valle del silenzio, quando si fa sera, scrivo per tratteggiare nuovi attimi racchiusi nella parentesi del pensiero, la solita poesia che fa capolino e mi chiede “chi sei?”. Ma come rispondere? Quale strada prendere? Quella della fede, del perdono, della speranza, dell’esserci come profondità salvifica, che ci fa ricordare, nelle corse da una parte all’altra della città, cambiando i piani della propria mattinata per una telefonata dell’ultimo minuto, nei piatti sporchi da lavare, nella sala da pulire, negli ospiti da accogliere, che siamo ancora vivi e che si commuove il cuore, ancora una volta, nonostante tutto, con i sandali vuoti, sulle vie della sabbia, con il respiro colmo di fiato e lo sguardo verso il cielo.

Sei la sabbia bagnata tra i piedi dell’acqua del fiume

Sei la voce che grida il mio nome lontano, tra cibo e preghiere nel tempio dell’ultimo santo

Il giorno perduto in quello che non si farà che non hai mai detto

Nel sogno di un nuovo domani di fiato Sei l’erba appassita tra i boschi e le bacche sul telo pieno di stelle la notte

Gli occhiali di vento il cielo e il suo sole sui nostri colori di grigio.

Ascolta l’episodio anche su Spotify

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