Capitolo 14: Clandestino

  • 4 Dicembre 2023

Passare l’estate su una spiaggia solitaria, così cantava Franco Battiato in un album La voce del padrone che ha fatto la storia della musica italiana. Con le sue sonorità pop, i gusti orientali, i testi orecchiabili, ma mai scontati, anzi complessi e profondi. Era finito per Franco Battiato il tempo della sperimentazione alla Fetus, o alla Pollution, in cui portare alle estreme conseguenze il suono, cercare di capire fin dove potesse arrivare una tonalità erano i suoi obiettivi. Poi L’era del cinghiale bianco, Orizzonti Perduti e altri capolavori. Vorrei avere quella stessa energia che aveva Franco Battiato, nel vivere e nel morire, nel poter credere di non avere paura della morte, di essere sempre in eterno mutamento, eremiti che rinunciano a se stessi, come in E ti vengo a cercare, cammelli sulla grondaia della vita a sperare nel tempo e nel destino, nell’ombra della luce come possibilità salvifica del domani. Troppo presto e troppo tardi.

Il futuro è incerto, le relazioni anche, quello che abbiamo di fronte ci permette di dire che non saremo più. Ancora Battiato finché non saremo liberi torneremo ancora e ancora. Non passo la mia estate su una spiaggia solitaria, ma a Lodi nel cerchio di un altro mattino, tra le voci e le speranze, nelle strade del sapere che si fa strada in noi stessi e negli altri, in quello che tra qualche giorno non avremo più, che non ci sarà. Così come Amidou quando apro la porta della Mensa questa sera e mi dice “sai Ermanno il mio periodo a Casa San Giuseppe è scaduto, così ora non vivo più a Lodi, ma a casa di un amico maliano. Si chiama Traore come me e quindi non c’è problema”. Lo guardo un po’ triste e si stringe in uno scambio condiviso. È vero che tutto è in continuo mutamento, che nella vita poco resta, che non abbiamo più le parole, ma sarebbe così bello sperare nelle certezze, credere che qualcosa rimanesse nonostante tutto.

Invece no. Lo insegnava già Luigi Pirandello: l’arte, il teatro non sono nient’altro che strade per mettere l’uomo davanti alla sua difficoltà di vivere, per dare voce alla nostalgia, al dolore, alla fragilità, per metterci a contatto con quello che non siamo. Quei sei personaggi in cerca d’autore rappresentano infatti la trasfigurazione concreta e tangibile del vagare eterno dell’uomo, che si sente incompiuto, senza una storia. Date le parole a questi attori senza copione, diamo la voce alla grande bocca che narra i racconti del tempo. Invece oggi sembra essere tutto in silenzio, tutto vuoto. Stanchi e indifesi. Per quello che sarà e che non sarà più. Il sabato pomeriggio lo passo in attesa del servizio in Mensa della sera, tra libri e ricordi. Infatti, nella prima parte della giornata mi muovo tra i compiti alla Biblioteca Tutto il Mondo. Sto aiutando un ragazzo ivoriano con Inglese e Italiano.

Dovrà alla fine di agosto affrontare gli esami di recupero per passare alla classe successiva. Non è facile per lui, soprattutto quando arrivano i complementi, la punteggiatura, i verbi, i sostantivi Così, frase dopo frase, esercizio dopo esercizio, le lancette dell’orologio si muovono e vedo nei suoi occhi la stanchezza.
È inutile continuare, il lavoro non darebbe risultati. Lo saluto e ci diamo appuntamento alla prossima volta per ultimare il ripasso. Guardo l’ora, il sole è ancora alto in cielo e oggi scalda più che mai. Ho deciso di indossare prima di uscire una camicia di seta indiana, ma credo di aver fatto una scelta più che mai funesta. Si fa fatica a respirare, il caldo è soffocante. Le gocce di sudore scendono lentamente sul volto. Per fortuna ho con me dei fazzoletti, penso.

Guardo i miei sandali vuoti e i piedi che hanno raccolto la polvere della strada, la stanchezza dell’identità, la bisaccia del viandante, con le ultime vite che si raccolgono alla sera. Ho voglia di bagnarli un po’, sentire scivolare via la difficoltà che si è accumulata e i destini inviolati del tempo, vedere l’acqua fresca del fiume donare un po’ di serenità. Mi muovo piano tra le vie di una Lodi deserta. In giro non c’è nessuno, i bar, i negozi, le librerie sono chiuse. Saranno tutti a casa con il condizionatore, penso, o al mare a godersi la brezza del vento e il profumo del sale. Così mi dirigo, in un’atmosfera quasi surreale, subito dopo Casa Bianco, in un piccolo luogo quasi sconosciuto, nascosto tra gli alberi, dove si può guardare l’Adda in serenità, sentirsi protetti, ricercare quel sentimento che ci fa sentire vivi. Mentre scendo dalla stradina sterrata, vedo qualcuno che si sta facendo il bagno. “Ciao Ermanno! Come stai?” grida da lontano divertito. Mi avvicino ancora un po’. È Sarr, il cuoco del Ceebu Jen, sempre lui, che si sta lavando. “Aspetti Daouda, il tuo amico? – mi dice – adesso non è in casa, ma sali comunque. Ci sono Moussa e Mamadou”. Così il sogno di poter togliermi i sandali svanisce e torno sulla strada, negli spazi colorati e ancora più umidi del ponte, dove la temperatura si può toccare con il coltello. Non c’è neanche un piccolo soffio di vento. I fornelli sono ancora accesi, ma per poco, si stanno spegnendo. Osservo la parete bianca tutta bruciata, come se fosse un camino, per via del fuoco e delle braci. Non l’avevo notato, ma ci sono dettagli sempre nuovi che saltano alla mente. Moussa, giovane senegalese, si siede vicino a me e iniziamo a chiacchierare piano.

Si apre quanto può e vuole, si racconta con la delicatezza di chi spera in un futuro migliore e desidera cambiare. “Sono arrivato in Italia nel 2016, sono stato in diversi progetti di accoglienza, anche nello Sprar di Roma” dice mentre mi fa vedere sullo schermo del telefono le immagini di lui con i capelli dread un po’ più lunghi e il sorriso di un tempo che fu. “Ora vivo qui, sto lavorando, ma il mio sogno è quello di avere una casa dove poter stare tranquillo. Non è facile, non puoi mai riposarti qui. Alla mattina perché c’è chi deve andare a lavorare e inevitabilmente fa rumore e al pomeriggio neanche, perché ci sono le voci e il continuo movimento”. Poi apre il portafoglio e mi mostra la carta d’identità e il permesso di soggiorno “adesso speriamo, inchallah, di poter fare sempre meglio, con l’aiuto di Dio”. È vero con l’aiuto di Dio, con il Signore dei Mondi che in ogni caso è certezza è possibilità salvifica del continuo esserci e credere, vivere e sperare. Dio che salva dalla morte, che in Croce prega il ladrone pentito e dice “sarai con me in paradiso”. Cristo il falegname che scaraventa i tavoli del tempio, che lava i piedi, che si dona a Lazzaro, ai poveri, agli ultimi, ai soli.

Dio che nel Vangelo e nel Corano diventa la strada più vera per concepire l’esistenza. “In Senegal – racconta Moussa – la maggior parte della popolazione è musulmana ma la cosa bella è che non ci sono guerre di religione, anzi la partecipazione è profonda e vera. Ogni volta che c’è una festa come l’Eid Mubarak, o l’Eid Al Adha, vi partecipano anche i Cristiani e viceversa con la Pasqua e il Natale”. Ancora “la nostra pace e serenità è veramente formidabile. Si trova sempre un posto dove stare, non è come qui. Se abbiamo bisogno di un piatto caldo lo troviamo, di un letto abbiamo ospitalità. Immaginati i bambini dopo aver passato il pomeriggio a giocare sulla spiaggia correre a casa e mangiare tutti insieme.
Gli uni con gli altri”. Poi si ferma un attimo e si toglie le scarpe. Osserva i miei sandali e dice “anche io li vorrei, mi piacerebbe molto poterli comprare, se sai dove posso trovarli”. Gliene comprerei infinite paia se potessi a Moussa, con il suo sorriso cristallino e la voce leggera che cerca nuove speranze, in cammino sulla strada dell’Esserci. Possiamo continuare a vivere di tempo, di stracci e di ricordi, anche se facciamo fatica e tutto sembra dolore. “La fede è l’unica possibilità che abbiamo per andare al di là della sofferenza, per dire che esistiamo nel mondo, negli altri e con Dio. Per me che sono musulmano è importante pregare cinque volte al giorno – spiega – questo mi fa sentire a contatto con Allah, qualsiasi cosa succeda. Senza bisogno di intermediari, ci siamo io e lui. Uno può essersi anche comportato male per tutta la vita ma alla fine se chiede perdono in modo sincero, la sua richiesta verrà accolta”.

Certo, lui è il Clemente, il Misericordioso, colui che ha innalzato gli umili e abbassato i ricchi, che ha ritrovato nei poveri la luce dell’eterna salvezza, la speranza di un nuovo mattino, la resurrezione come emblema della purezza dell’anima. Ci ha salvati dal peccato, ha indicato la via da seguire. Così anche io gli parlo degli ultimi momenti di Cristo sulla croce e lui dice “Vedi che non c’è poi nulla di così tanto diverso. Ognuno ha la sua mentalità, ma ben venga se serve per arrivare allo stesso risultato, se è per essere salvati dalla vita. Non è facile stare al mondo, però in questo modo possiamo almeno provarci”. Ha ragione Moussa, non bisogna pregare per credere che Dio risolverà tutti i nostri problemi, per chiedere qualcosa in più, per essere attaccati alla ragione e alla materia, per guardare al Signore dei mondi solo quando ci fa comodo. Non si prega per cambiare il proprio destino, ma per accettare quello che Dio ha disegnato per noi. Questo è il grande passo dell’uomo che apre completamente le sue braccia a un nuovo amore, che si rende conto di essere solo di passaggio, che sa che la sua esistenza terrena sia solo un momento per giungere a qualcosa di più grande. Eccoci migranti, clandestini, viandanti del destino. Poi prende il cuscino di Diamanka e se lo mette sotto la testa per riposarsi un po’ e inizia a sfogliare il libro che gli ho portato. Qualche poesia scritta sull’Africa che è sogno, desiderio e partecipazione, che serve a immaginare di essere e di continuare a credere. Legge piano e a fatica ogni parola, ma sembra che ne abbia bisogno per ritrovare un po’ di fiato, per stare a contatto con l’anima. Poi resta in silenzio. Si guarda intorno.

Il fuoco si è spento completamente e fa caldo, come se fossimo dentro a un forno. A un’estremità qualche bottiglia di plastica accantonata, delle lattine e i sacchetti per fare la raccolta differenziata. Si avvicina Sarr che si è vestito, pronto per uscire, in mano un pezzo di una bottiglia di plastica che funge da bicchiere e un po’ di caffè latte. Sono le cinque del pomeriggio ma va bene ugualmente. Poi si mette in sella alla sua bicicletta, sorride e riprende la strada. Per Moussa invece è ora del bagno.

Scendiamo e ci dirigiamo nel piccolo spazio protetto di sassi che danno sull’Adda. Silenziosa, pulita, pura, viaggia alla ricerca del sale, acqua che passa e non ritorna, che è sempre diversa e la stessa, che si commuove e piange, che vibra con l’identità. Mi sento fragile davanti a lei, ogni volta. Così saggia. Alzo gli occhi al cielo e osservo il ponte che sospeso nel vuoto si staglia all’orizzonte del cielo limpido. senza nuvole, attraversa il tempo e lo spazio, il giorno e la notte, il buio e la luce. È il filo dei panni stesi della vita. Tolgo i sandali e finalmente bagno i piedi. Li appoggio sui sassi, facendo attenzione a non scivolare. I pesci, le alghe e il respiro che finalmente posso prendere a pieni polmoni, scivolano via per un attimo la tristezza, la malinconia, le domande, i pensieri. Tutto tace, solo il silenzio del fiume e del cielo. Moussa entra completamente in acqua e fa la doccia approfittando delle temperature. Dice qualcosa in Wolof, poi si rivolge a me “almeno d’estate possiamo fare così, invece d’inverno è dura stare qui. Fa freddo e di mettersi in costume nel fiume per lavarsi non se ne parla neanche”. Poi esce, si asciuga e inizia a piegare i vestiti che probabilmente aveva steso sui sassi roventi qualche ora prima, dopo aver fatto il bucato nell’acqua del fiume. “Così domani sono pronto per andare al lavoro”. “Anche alla domenica?” gli chiedo stupito “Pagano di più”. Me lo immagino magazziniere lavorare dodici ore per essere poi pagato una miseria. Capita che alle multinazionali, in questo senso, faccia comodo avere una manodopera più forte, più prestante, pronta ad accettare qualsiasi condizione lavorativa pur di portare a casa lo stipendio. Lo diceva anche Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione: non sono più i proletari a dover fare la lotta di classe, sventolando bandiera rossa, dalle fabbriche, dai campi di grano, ma gli immigrati, gli ultimi, i soli, i poveri, coloro che non sono ancora inseriti nella logica della società del consumo.

Gli unici ad avere ancora gli strumenti per creare il cambiamento, per fare un passo avanti rispetto all’appiattimento della società ricca e perbenista che vive immersa nei soldi e nel pensiero dominante i suoi giorni, illudendosi di libertà e di democrazia. Noi viviamo e moriamo in un mondo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società: è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità Non abbiamo più la consapevolezza di poter dire che ci siamo, che abbiamo bisogno del cambiamento, oltre la fatica, oltre il giudizio, il compito dell’uomo è decidere di esserci e di ricordare, di essere nella poesia come fine ultimo del tempo, finestra di passaggio. È arrivata l’ora della Mensa, così usciti dalla spiaggia dei conigli bianchi e dei ciliegi, lo saluto e continuo il cammino. Mi lascio alle spalle un mondo e un’altra volta entro nell’altro. Passo per Via Borgo Adda e tra le case spunta da lontano il campanile della chiesa del Borgo, meravigliosamente neo romanico, con le prospettive che si appoggiano sull’azzurro e l’immenso. I regali della giornata, i continui cambi di profondità spirituale.

Piazza Barzaghi, Via Lodino, Corso Umberto, Via Volturno e arrivo alla panchina dove ci sono già Mario e Jimmy. Oggi arrabbiati, o forse nervosi, discutono, guardano il mondo e la vita con lo stesso spirito critico di sempre. “se ti comporti male, là c’è la porta e via! Io non capisco perché voi non diciate mai niente” urla Jimmy. Ma cosa dovremmo dire? A proposito di chi?
I tempi cambiano, così le emozioni, le storie e i vissuti. Poi apro il quaderno e scrivo di fretta qualche parola, cercando di non essere visto. Non posso farmele scappare.
Sono arrivate, adesso Un bagno nell’Adda lavare i vestiti di Africa, dolce la sera. Il suono del ponte sul cielo d’estate ondeggia sul sogno del mare. È musica nera di tempo sorriso svanito nel cerchio del sale Non siamo più niente ricordi bagnati d’incenso. La Mensa è tutto questo: un ponte sul futuro, una speranza, una nuova possibilità. È credere che domani debba essere ancora qui, a pulire i tavoli, a spezzare il pane, a lavare i piatti, ad aprire il portone e salutare Konateh che mi vede da lontano e sorride, stringendosi in un nuovo abbraccio.

Ponte della tangenziale di Lodi

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