Capitolo 12: Il tempo del cielo

  • 20 Novembre 2023

Questa mattina il sole d’agosto batte sulla pelle, dopo alcuni giorni di tregua, il caldo torna a farsi sentire, inesorabilmente. La vita continua e nei giorni di mercato le strade di Lodi si riempiono di profumi e di colori. La gente si fa largo nelle vie con borse, sacchetti, sacchettini, chi ne ha approfittato per comprarsi un paio di pantaloni nuovi, a poco prezzo, chi per prendere il pranzo in gastronomia, per non accendere i fornelli, chi invece si aggira tra i banchi con aria incuriosita, solo per il gusto di passare il tempo, di guardare quello che poi non si comprerà mai. È l’antropologia del nostro sentimento il mercato, quello che unisce e divide, che stringe e abbraccia il campanile della piazza, che si getta nella tranquillità di un giovedì mattina, come gli altri, come se fosse tardi. Tornano alla mente i versi di una poesia di Mariangela Gualtieri. Parole che attraversano l’anima, mettono a nudo la nostra fragilità, quello che siamo: la morte, il dolore, la sofferenza, l’ineluttabile, la via spirituale dell’amore.

La poesia che scava in ogni angolo della profondità e ci dice che dobbiamo morire, ci dà gli strumenti per il fine ultimo dell’esistenza, ci fa ascoltare le voci dell’universale, dello spirito che trascende la materia.  

Spingo nella frana i miei pensieri poi guardo il cielo. Corvi insolenti stanno sul davanzale. Piove. È giorno di mercato. La parola Amore mi gira intorno. Vuole sempre venire in ogni riga. La parola Amore, la parola che scava da ogni lato l’animo nostro informe, quella che è tempo, ricordo, impossibilità, che cerca di uscire quando si fa sera, quando il buio sembra essere più prorompente della luce e non c’è più spazio. Solo il silenzio dell’attesa, solo la voce dell’ultimo viandante della luna.  La tengo buona, indietro. Come avvolta in un panno di lana. Non puoi uscire, le dico. Cara parola. Non puoi uscire oggi. Non può uscire nel pianto disperato di un bambino che è gioia pura, che è gridare al mondo tutto quello che ancora non si sa, che è giocare sui fili della pioggia, perdersi e ritrovarsi senza voce. Non può andarsene quando Jimmy protesta perché ha poche polpette nel piatto e bestemmia, sbattendo il vassoio sul tavolo. Non può lasciarci ancora la poesia, non può andare via, negli occhi bagnati di pianto dell’uomo seduto sulla panchina della sera, nella voce dei nostri desideri, in una sporta che sbatte e nelle urla della sera. Jimmy è un vulcano che non è ancora esploso del tutto, uno che aspetta il momento in cui sarà troppo, in cui non ci sarà più il tempo di tenersi dentro la vita, la sofferenza, quello che è stato, il passato ingombrante e il presente annebbiato. Uno che prima o poi esploderà, forse un’altra volta e bisognerà accogliere il suo sentimento di nostalgia, ricucire la sua ferita.

Non è troppa la parola, non abbandonarci Poesia, canto del profeta vestito di bianco, stella nel cielo più nero, voce di uomini soli in fuga sulle vie del mare, non abbandonare le terre senza voce, i campi di grano, il sole di maggio, la pioggia che bagna e consola, il cielo che grida tempesta. Non chiederci più quello che siamo. Ancora, Mariangela Gualtieri, profetica,  Ci vuole una mano spadaccina per quel tuo carico ingombrante e invece noi oggi siamo nel calmo della nuvola turchina siamo stupidi un poco, un poco stanchi. Tu resta nella nicchia, parola, per quel giorno quando risuonerai – di nuovo nuova.  Spingo i miei pensieri e guardo il cielo, in attesa che la parola risuoni, che si affacci su nuove frequenze, che si ritrovi nell’insistenza, nel grido inascoltato di chi non ha niente, in quelli che non trovano la strada di casa. I tavolini dei bar sotto i portici sono pieni e si gusta la colazione delle 11: caffè, cappuccini, brioche e il giornale aperto per informarsi su quello che succede a livello locale e nel mondo. Serve sempre, soprattutto se si vive immersi in una realtà che giorno dopo giorno sembra togliere ogni energia, che si dimentica dell’identità, che non ci lascia più niente da dire. Nella vita esiste il dolore, la sofferenza, la nostalgia, l’angoscia, la rabbia, ma non può non esserci anche ciò che ci fa stare bene, che dona gioia, le piccole felicità che aprono gli occhi all’umanità nuova, che guardano lontano.

Lo dice anche Massimiliano, un tipo un po’ strano, con qualche vizio, nato a Lodi, ma che ha trascorso gran parte della sua vita al Sud, mentre siamo fuori in attesa di aprire il dormitorio per la doccia del pomeriggio. “È tutto dentro al TAO, il bianco e il nero, il bene e il male, la gioia e la sofferenza, questo siamo noi. Così non c’è la vita senza la morte, l’unica cosa certa tra tutto quello che ci circonda, l’unica soluzione al dolore, all’impossibilità.” Via Defendente è percorsa da macchine a ogni ora del giorno, sempre piena, soprattutto a quell’ora del pomeriggio, mentre le osserviamo passare mi dice “La gente mi conosce perché in passato non mi sono comportato bene, ero un’altra persona, la rabbia che avevo dentro mi spingeva ad avere atteggiamenti che andavano al di là della legalità, oltre i confini della possibilità. Adesso che dormo in giro, ho capito. Anche se non è facile”. Sovvengono alla mente le sue parole in questa mattina, osservando la piazza dai mille colori, cercando di farmi strada tra il mare di persone che la abitano. Non è la solita Lodi d’agosto, quella che un tempo si svuotava e camminare nel silenzio era un piacere, quella delle sere d’inverno in cui pochi, quasi nessuno, escono alla sera per fare una passeggiata. Non c’è quell’atmosfera, anzi, oggi sembra essere proprio caotica, immersa nelle grida e nel vociare. Così mi sposto sulla solita panchina, in attesa che arrivi Giselle. Il sole scalda la testa e accanto a me ci sono delle signore anziane che stanno aspettando la corriera.

Qualche sacchetto della spesa e la stanchezza di chi abita alle Fanfani o a San Fereolo e non riesce più a tornare a casa da solo. “Vai vai Pierluigi – dice al marito una signora con un vestito di pizzo, a fiori – tu che hai la bicicletta, io aspetto qui, non importa”. Poi parlano tra loro degli orari dei bus, del costo dei biglietti, dei dolori che si provano con il passare degli anni “vorrei fare le stesse cose di quando avevo vent’anni – afferma una – ma mi devo rendere conto che non ce la faccio più, anche se per me è complicato farlo”. Mi domando della profondità del tempo, dei giorni, del continuo scorrere delle stagioni, dei sogni, delle possibilità sfumate. Le foglie cadute dei tigli, le occasioni non colte, come rose dai mille colori, i fiori profumati della primavera sul fiume dei ricordi. Un giorno moriremo e il tempo ci chiederà respiro, fioriranno nuove primavere, ci saranno altri nomi, altre parole. L’anima camminerà sulle vie della sabbia, a piedi scalzi. Mentre sono immerso in questi pensieri arriva Mario e si siede vicino a me, stiamo un attimo in silenzio. Poi vede due donne africane attraversare la strada e mi dice “Vedi, loro hanno tutto”. “in che senso?” gli chiedo. “Vengono qui dall’Africa e poi fanno la fame. Perché? L’ha è pieno di cose belle” “Perché è da secoli che qualcuno prende le loro risorse, lasciando le persone in povertà” gli rispondo. “No, no, non è vero, sono loro che non sono in grado di gestirle e quindi scappano”. Guardo un attimo Mamadou, che intanto è arrivato e si è seduto vicino a noi, sperando che non abbia sentito. Per fortuna è immerso nel telefonino e sorride, sembra essere appeso sui fili di un altro mondo, attraversato dalla solitudine lieve, che fa vibrare l’anima. In effetti la riflessione di Mario non l’avevo mai sentita, dovrebbe dirla a tutti quelli che scappano, dopo essere stati torturati nei lager libici e che affrontano la traversata nel mediterraneo senza sapere se troveranno un porto sicuro, a tutti quelli che passano settimane, mesi o addirittura anni, immersi nella rotta balcanica, che vengono picchiati dalla polizia croata e poi rimandati indietro, a tutti quelli che hanno visto la morte negli occhi, che hanno lasciato parenti, amici, nella terra da cui non sarebbero mai voluti andare via. Ma non serve parlare, ognuno è fatto a modo suo e Mario ritrova nella memoria che non c’è e nei discorsi sconnessi il dolore della povertà e di una vita che è stata non tanto generosa. Così come con tutti quelli che varcano il portone della Mensa e vengono a mangiare, in cerca di qualcosa di più, anche solo di un sorriso, della relazione, della condivisione vera e viva della propria fragilità. È così bello quando troviamo chi è pronto ad ascoltarci, quando ci sentiamo soli e sulla strada anche per poco incrociamo gli occhi profondi di qualcuno che ci sorride o semplicemente ci saluta, ci dice “spezzami per favore il pane” oppure “riempimi la brocca dell’acqua”. Dovrei essere io il volontario, io a insegnare, io a dare le regole di come ci si debba comportare, ma sono tante le volte in cui più che insegnare imparo e proteggo tra le braccia, egoisticamente, il sapere, quello che ho appreso, che raccolgo nei volti dei poveri. Oggi, soprattutto imparo e questo giovedì d’agosto insegna ad accendere le luci, a intrecciare la vita, a ritrovarsi là dove nessuno vede, tra i sogni di libertà. Abbiamo appena iniziato il servizio, quando sentiamo delle urla in bagno, Giselle corre per vedere cosa stia succedendo. Riesce così a tranquillizzare la situazione: due ospiti hanno iniziato a litigare, uno di loro infatti stava occupando tutti e due i lavabo perché non voleva nessuno vicino. Il ragazzo esce dai servizi, prende il vassoio e si accomoda in un tavolo in fondo per iniziare a mangiare.

E poi soli di sabato in questa città

L’altro invece lo raggiunge senza pensarci due volte e iniziano a picchiarsi, i vassoi vanno in terra rompendosi in mille frammenti e un tavolo si sposta violentemente. Un grido. Poi il silenzio. Per un attimo sembra che il tempo si sia fermato, che non ci sia più niente da dire, pare di essere capaci di comprendere il mistero della vita. Invece è una percezione momentanea, vuota, quasi banale.
Ci guardiamo negli occhi. I secondi ricominciano a scorrere come prima. Gli altri ospiti dopo la difficoltà iniziale, si alzano per cercare di fermarli, ma la lotta va avanti, mentre la massa di persone li circonda e le urla si disperdono tutto intorno. I volontari immobili guardano la scena da lontano, mentre Giselle con la sua solita prontezza interviene per separare i due ragazzi. Uno si toglie la maglietta e con gli occhi vuoti non smette di urlare, mentre gli altri tengono fermo l’avversario che è pronto nuovamente ad alzare le mani, con i segni del sangue sul volto. Forse un coltello, non riesco a vedere bene. Alla fine Giselle, senza l’aiuto delle forze dell’ordine, riesce a calmare una situazione complicata, gli ospiti si ricompongono, alcuni se ne vanno e si può ricominciare da capo, ma più vuoti e soli di prima.

I due a distanza di tempo escono dalla Mensa e possiamo finire il servizio, mentre Giselle riflette su quello che è successo, ancora sconvolta. “Ho paura che abbiano rubato un coltello, questa lite continuerà anche fuori, vedrai. Sono capaci di fare di tutto, quello è il problema”. Ancora “Stanno tornando come anni fa, quando ogni volta che aprivamo la Mensa c’erano liti e discussioni. Quante volte ho chiamato la polizia, soprattutto quando c’erano tanti Nigeriani. È proprio grazie ai Nigeriani che ho acquisito un comportamento così duro, che sono diventata forte, non è facile tenergli testa” racconta, mentre cerco ancora di comprendere cosa sia successo, ma non c’è niente da capire e quello che abbiamo è il sogno dei figli del vento, la luce nella sera, il fazzoletto piegato di cielo. Ammiro Giselle che anche in queste situazioni riesce a essere lucida, a non peccare di servilismo, a non cadere nel tranello dell’assistenzialismo perbenista. Dura e tenera, quando vuole. Pronta a sottolineare le regole ancora una volta, a dire che il rispetto debba giungere da tutte e due le parti, che non si possa fare accoglienza dimenticandosi dell’altro, che non è possibile ritornare sulla strada di casa senza niente, senza il proprio camminare.
Così cerco di tranquillizzare anche gli altri ospiti, che mi guardano un po’ esterrefatti, Amidou che suona alla porta proprio durante l’accaduto e Diamanka con il suo cappello di lana che mi stringe in un abbraccio di saluto. C’è bisogno di un nuovo modo di guardare la vita, di comprendere le cose, di sentirsi parte di quello che non abbiamo e di cui abbiamo bisogno, soli, indifesi, senza niente, appoggiati sulla malinconia del tempo che passa e non torna più. È vero quello che dice Giselle, sono profonde le sue parole: gli ultimi mesi sono sempre stati tranquilli, mentre da qualche settimana, complice l’aumento del numero di utenti, il caldo, la situazione è movimentata e non si può perdere la calma e l’attenzione. Soprattutto per chi sta viaggiando attraverso le storie, le emozioni, i racconti, per chi cerca di ritrovarsi bisaccia del pianto, dei colori dei tigli, delle nuove possibilità, al di là del dolore e della sofferenza. Ancora un po’ scosso e mentre faccio queste riflessioni scivolo nel cucinotto.

Avanti posate, piatti, bicchieri, vassoi e i contenitori del cibo. Poi si torna sulla strada di casa, mentre le domande continuano a venire alla mente. Domanda arché, principio primo, ricerca universale, motore immobile del reale, dell’Esserci, di quella speranza di potere che tanti hanno, che continua a scardinare il tempo e la vita, che ci fa credere di essere immortali, ma che in realtà ci fa muovere nel silenzio. È la domanda che salva, che consente il viaggio eterno della parola, che permette di continuare il proprio cammino, nei piatti rotti, nel viso sporco di una lite, negli occhi del giovane amico seduto sui sogni e nei cappelli di lana, nella prontezza di Giselle, per affrontare anche le situazioni più difficili, come quella di oggi, in cui la rabbia, la violenza e l’aggressività prendono il sopravvento. C’è ogni cosa alla Mensa del pane spezzato, quello che siamo destinati a diventare, nonostante tutto: sabbia gettata nel vento, strada della luna, anime in cerca dell’eterno ritorno, sull’ultimo tempo del cielo.

Come ali d’angelo senza risposte ricerco la strada del sole
La via della pace dei sensi il sogno dell’uomo che fugge che scappa negli occhi del mare che vende i suoi libri camicia di seta e sciarpa d’estate Appeso sui fili del tempo Vola la falce che miete il mio grano che vivere è solo la strada più lunga degli occhi sbiaditi della parola sul cuore

Ascolta l’episodio anche su Spotify

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