Capitolo 7: Amidou

  • 16 Ottobre 2023

È un caldo mercoledì di inizio agosto, il tempo scivola sulla vita e ci ricordiamo delle nostre profondità, di quello che siamo e che abbiamo il bisogno di diventare, non è facile, ma c’è il coraggio del racconto e del crescere. Il sogno dell’Africa, calda d’amore per fuggire dalle malinconie del presente, un mondo che mi chiama e la chiave per aprire i cassetti del cuore. Ci sono le immagini del Niger, delle rivolte contro i francesi, della vicinanza sempre più profonda con la Russia e la distruzione delle manifestazioni senegalesi contro l’arresto del candidato presidente Ousmane Sonko. Sono testimonianze che arrivano chiare e forti e che in questi giorni non riesco a mandare giù, neanche con un fresco bicchiere d’acqua, che irrompono nella calma apparente della quotidianità, che disegnano la politica internazionale frammentata e in bilico. C’è un continente che si è stufato di essere sfruttato, che ha voglia di rivalsa, di vincere le difficoltà e quindi accetta la morte, la sofferenza, il caos, la ribellione, per sperare in un nuovo futuro. È il vuoto che prende forma, soprattutto quando ripenso al Senegal e vedo le strade bruciare, la gente che si ammazza, le bandiere rotte sventolare in cielo e le grida della sofferenza. Il mio Senegal, quello della tranquillità, della pace, della teranga, come solidarietà vera e viva, quello del bul khalat per dire: non ti preoccupare, tutto andrà nel verso giusto, tutto si sistemerà. Questa volta le cose fanno fatica ad aggiustarsi, lo sa bene Diamanka che entra in Casa San Giuseppe per fare colazione e mi dice con la sua voce profonda e carica:

“Hai visto cosa sta succedendo? La gente è stanca di essere sfruttata da un governo che fa solo i suoi interessi”.

Poi sbuffa, si sistema il cappellino sulla testa e riempie la tazza di latte fino al bordo.

Un po’ di caffè e qualche biscotto, così si può iniziare a mangiare, mentre sul tavolo è già pronta la dama senegalese per giocare. Lavo tazza dopo tazza, bicchieri, cucchiaini. A un lato della stanza, davanti alla televisione, si sono radunati un po’ di ragazzi, per seguire la partita della nazionale italiana di calcio femminile contro il Sud Africa.
L’orologio segna il 45’ più sette minuti di recupero e le due squadre sono sull’uno a uno. Mi siedo vicino ad Amidou, un amico del Mali, che un po’ guarda il teleschermo e un po’ fa scorrere delle immagini sul telefonino. Amidou Traore è alto, occhi scuri e un po’ di barba che circonda il viso e si fonde nei capelli corti che si ritrovano nel volto pulito, luminoso, che sorride.

Ermanno e Amidou

È serio, umile, con la testa sulle spalle e piano piano si racconta, con me in modo libero. All’inizio un po’ timido “tu mi fai le domande, io rispondo”, poi quando è ora di andare, continua a raccontare e a ripensare a quello che è stato, che è e che vorrà diventare “e poi?” lo ripete, per dire che vuole andare avanti a parlare, che il nostro dialogo è simbolo di una relazione e di un cammino verso la ricerca più vera dell’identità, che serve per ritrovarsi fragili e vivi nel desiderio. Ma le tazze si sono accumulate e il detersivo mi aspetta, poi ci sono i tavoli da pulire, il cibo avanzato da mettere via e i dispenser del latte, del the e del caffè da svuotare. Rimarrei volentieri tutto il giorno a chiacchierare, a condividere con Amidou, che ho conosciuto solo qualche mese fa, ma che sembra essere amico da una vita, uno di vecchia data, con cui si può parlare di tutto e di niente, con cui basta anche il silenzio dello scambio relazionale e della partecipazione. Amidou è un ragazzo, ha ventitré anni e il suo cognome, Traore, non lascia scampo: viene dal Mali. È nato a Bamako, nell’aprile del 2000 e la sua infanzia, racconta, l’ha passata a studiare e ad approfondire:

“Sono andato in una scuola coranica per imparare Il Corano, a leggerlo e a capirlo, in un piccolo villaggio. Successivamente sono tornato a Bamako e ho frequentato un istituto di francese. Nel 2020 ho conseguito anche il certificato di Baccalaureat”

dice orgoglioso mentre mi mostra sul telefonino la foto del documento che ha portato direttamente dall’Africa. Si legge in grassetto: a été déclaré(e) définitivement admis(e) au Baccalauréat Malien Poi ha lasciato gli studi, senza frequentare l’università, per lavorare

“Ho lavorato come commerciante in un negozio di collane”

Così mi fa vedere nuovamente un video di una piccola bottega colma di collane colorate e lui con un cappello bianco in testa che le sta scegliendo per venderle. La cosa che apprezza di più del suo paese, senza dubbio, è la solidarietà.

“Ci sono moltissime cose che sento vicine, che conservo nel cuore, i grandi uomini germogli della mia terra, come i cantanti Boubacar Traore, Ali Farka Toure e Umo Sangare che recentemente ha fatto un concerto a Bologna, ma apprezzo anche – continua – l’economia basata principalmente sull’agricoltura e l’allevamento”.

Poi il discorso si apre alla religione e il suo volto si illumina, colmo di Fede, di speranza, di possibilità salvifica di Dio:

“Per me la religione Islamica è un aiuto ad affrontare le difficoltà della vita, poter alzare gli occhi al cielo, quando tutto va male e dire Alhamdulillah resta l’unica certezza concreta di volontà e forma. In Mali il 95% della popolazione è musulmana, ci sono delle moschee meravigliose, ma quelle a cui sono più sentimentalmente legato si chiamano: Sidiaia e Djinguereber”.

Il ragazzo è giunto in Italia il primo dicembre del 2022, neanche un anno fa. Non sembra perché l’Italiano lo parla molto bene, senza fatica per uno che è arrivato qui da così poco.

“Non ho viaggiato con la barca – rassicura – ma con l’aereo. Per farlo ho dovuto vendere tre mucche che allevavo in un piccolo villaggio a Koro. Mio fratello era già venuto in Italia ed è stato lui ad aiutarmi a intraprendere questo viaggio fin qui”.

La mia domanda che, però non ho il coraggio di fare, è: perché sei venuto in Italia? Lui sembra leggermi nella mente e mi anticipa:

“Non è tutto così bello in Mali, una casa, un lavoro, gli amici. C’è anche tanta povertà. La difficoltà più grande con cui dobbiamo fare i conti è la guerra. Una volta a Koro abbiamo subito un attacco terroristico, che ha devastato le case, ucciso gli animali e le persone. È stata in quell’occasione che è morta mia sorella.”

Poi, dopo una breve pausa di riflessione, che sembra raccogliere la coscienza trasfigurata del nostro tempo e del destino, commenta la situazione geo politica:

“Noi abbiamo bisogno di armi, non sono gratis. Credo che il rapporto che si sta creando con la Russia sia positivo, Manderemo via la Francia per sempre. Il nostro territorio è ricchissimo: ci sono il ferro, gli ori, ma di tutto questo cosa rimane ai cittadini? Niente”.

Ritornano alla mente le parole del rivoluzionario del Burkina Faso Thomas Sankara e pare che sia tutto lì, nel viso fermo alla Che Guevara e nel basko rosso: Sono gli altri ad avere nei nostri confronti un debito che non potranno pagare: il debito del sangue che abbiamo versato. Il treno della Pace passa sempre, come scriverebbe Cat Stevens, ma chi ha il coraggio di prenderlo?

“La mia famiglia è molto numerosa – va avanti – io sono figlio della seconda moglie di mio papà. Lui adesso non c’è più, è morto nel 2014”. Altra pausa di silenzio e riflessione. “Ora, però, devo pensare al futuro in Italia, senza documenti non posso fare niente, neanche lavorare. Poi, magari, un giorno, potrò fare ritorno nel mio paese”.

A Lodi Amidou è capitato quasi per caso, o meglio, è stato il fratello a suggerirgli di venire qui “vedrai ci sono tanti africani che ti aiuteranno, così mi ha detto – commenta – In effetti è stato proprio qui che ho incontrato Makan, un altro maliano, mi ha permesso di venire a conoscenza della Caritas”. Prosegue “Grazie all’aiuto dell’operatore Alessandro Curci, che mi ha accompagnato, sono andato a fare la vaccinazione. Così dopo due notti trascorse sotto il ponte della tangenziale, sono andato al dormitorio di Via Defendente. Lì sono stato due mesi, però non mi sono trovato bene, soprattutto per via della gestione e del fatto che magari a determinate ore non mi venisse concessa la preghiera per me obbligatoria e fondamentale. Ho capito che certi atteggiamenti sono profondamente intrisi di una matrice razzista, ahimé”. Così una sera non ce l’ha fatta più, ha preso le sue cose ed è andato sotto il ponte. Dopo qualche giorno lo ha chiamato Clara Maggi del Centro D’ascolto e lo ha aiutato ad avere un posto letto in Casa San Giuseppe. Clara è una di quelle persone che conservo nella profondità del cuore, che sono come un punto di riferimento, nell’attesa delle sinfonie verso il giorno, che ammiri per la loro vita e profondità, per il loro continuo costruire ponti. Ha un bambino di pochi mesi Ismaele nato da papà Malik, giovane togolese.

Un simbolo di affetto, di fede e di stima che va oltre ogni ideologia strumentale, che cancella l’abisso del nulla in cui certe volte cade l’uomo. No, gli occhi dell’amore sorridono nella casa della vita, nel tempio del non peccato, lì dove si raccolgono le foglie secche degli alberi. “Molti pensano che l’Italia sia un paese razzista, ma io questo non posso dirlo – afferma Amidou – ho conosciuto, a parte qualche eccezione, persone che sono state importanti, che mi hanno aiutato nel percorso di crescita, così come qui alla Caritas. Il mio sogno, conclude, sarebbe quello di fare l’università e di lavorare come saldatore”.

Tra sogni e nuove possibilità Amidou rivive così la sua infanzia, il rapporto con la terra, con il sale, con il cibo anche “Il mio piatto preferito è il Tò, una salsa di mais che si può accompagnare insieme alla carne o al pesce. Uno dei momenti più felici della mia giovinezza è stato quando abbiamo organizzato una festa a casa in occasione della fine della scuola. Sono arrivati tutti i miei amici e ho preparato io da mangiare”. Vibrano i ricordi tra le pagine e le storie della vita, in una mattina semplice, che si raccoglie nell’intensità dell’Africa, in un viaggio che è destino, scelta, necessità, che adesso con la mente, presto, si spera, con gli occhi mi condurrà là, dove ogni cosa è confine di terre libere, di canti, di voci che si alzano al cielo, come quella tenera e dolce di Amidou che intona: lasciatemi cantare, con la chitarra in mano… “È una delle mie canzoni italiane preferite, ma ce n’è anche un’altra, quella che dice – e canta – Bella Ciao, Bella Ciao”. Amidou che canta e sorride, che si commuove, in volo, così com’è il nostro conoscere e stare a contatto con le necessità, così come dobbiamo avere il coraggio della solidarietà e della cosalità come fine ultimo dell’esperienza, come viaggio dello spirito che si riconosce in quello degli altri, che si fa sapere assoluto. Voglio vedere il silenzio da cui ogni parola vera nasce, scrive la poetessa Chandra Livia Candiani. Fatemi vedere il silenzio da cui ogni parola prende vita, si trasfigura, diventa tutto nello spazio finito della pagina bianca, si scioglie nell’inchiostro dell’ultima emozione. Così è ascoltando Amidou. Gli spiego della storia di Bella Ciao, delle sue origini nella resistenza, del simbolo di valori e di ideali che, scriveva Antonio Gramsci negli Scritti Giovanili, devono aiutarci a parteggiare, a non essere indifferenti. Poi scattiamo una foto e lui mi manda il certificato di Baccalauréat via messaggio “è importante, tieni anche questo”. Il sapere è la necessità che abbiamo nel cuore, in modo disinteressato, per far vedere quello che siamo, per riuscire a cambiare, ad andare oltre, a non fermarsi all’appiattimento che, certe volte, è il rischio del vivere sociale. Scoprire le cose nella loro essenza pura, amarle per come sono, sconvolgere ciò che è certo, ricostruire la casa della conoscenza, pezzo dopo pezzo, dubitando di ogni cosa, far vedere quello che gli altri non vogliono capire, osservare, di cui non hanno il coraggio di rendersi conto. Troppo infelici, troppo fragili. Il tempo è volato, sono le dieci e trenta e devo assolutamente andare a lavare le ultime tazze e sistemare il disordine in cucina. La partita intanto prosegue e il gruppo di ragazzi davanti allo schermo è aumentato, c’è chiaramente anche Moussa.
Altri, invece, preferiscono stare davanti al computer, ascoltare della musica, guardare delle immagini, altri ancora infine stanno seduti ai tavoli, chi da solo in silenzio, chi giocando a dama, chi invece come Tsing, preferisce sdraiarsi per terra, sopra il suo turbante rosso per riposarsi un po’.

Le voci si aprono e mentre nella stanza si vive il tempo che continua a scorrere, gli operatori lavorano, chiamando qualcuno nei loro uffici, per aiutarli. Perché c’è anche il lato burocratico che non va dimenticato, importante per chi viene assistito e per chi assiste, in modo da migliorare le proprie condizioni. Le colazioni sono finite e sta per iniziare il corso di italiano così saluto ed esco dalla sala. Oggi niente Mensa ma, poco male, abbiamo già dato con tutte quelle tazze e quei cucchiaini…
Vado in cortile e prima di varcare la soglia del cancello e incamminarmi verso casa, saluto Diamanka che è intento a riparare la sua bicicletta, insieme ad un operatore. A un certo punto arriva un altro ragazzo senegalese in bici, si ferma lì vicino, alto, con una folta barba scura e un cappellino di lana in testa. “Grazie – gli dice – per avermi riparato la bicicletta. Non ho tanto da darti in cambio, solo questo grazie e le mie preghiere verso Dio”.

Si salutano e sfreccia via. Così saluto Diamanka e mi incammino anche io, un po’ commosso, dalla profondità di chi ha il coraggio di continuare a ricercare, senza fermarsi mai, di chi ha ancora la forza di essere l’altro, di ricucirsi in un sentimento nonostante la fatica dell’attesa, il silenzio delle nuvole e la strada di pioggia. Ma sono i gesti più sinceri che scaldano il cuore, senza pensare per un attimo, al dolore, che ci stringe nel vuoto dei giorni, ma con la certezza di essere tempo. Così come con Diamanka, con il ragazzo della bicicletta che parla a Dio degli altri, dei suoi affetti, di quello che di buono si riceve dalla vita, non del potere, della ricchezza, dell’invidia, dell’avidità, ma dell’amicizia, o come con Amidou, che dall’Africa apre i suoi ricordi per l’anima e, insieme, seduti al tavolo del dormitorio ricerchiamo le nostre aspirazioni, quello che siamo. Io e Amidou Traore, come fossimo per sempre, mano nella mano.

Ascolta l’episodio anche su Spotify

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