Capitolo 5: L’anima e il tempo

  • 3 Ottobre 2023

L’anima e il tempo è quella che si vive giorno dopo giorno, parola dopo parola.  Ci sono persone arrivate alla Mensa, incontrate, conosciute per cui provo una stima profonda, un’ammirazione quasi inviolata, una ricerca dell’ultimo tempo di strada e di forma del sogno.  Konateh, Amidou, Mamadou, Ladji, Moussa.  Ladji adesso non viene più in Mensa, vive in una casa messa a disposizione dalla Caritas insieme ad altri due ragazzi, in attesa di trovare una sistemazione.  Lo ricordo gentile, umile, contento, entrare dal portone nelle sere d’autunno prendermi la mano e poi di corsa a mangiare, con le ciabatte ai piedi e il profumo d’Africa, terra del pane.  O ancora ballare contento pensando alla Costa d’Avorio, casa e famiglia.  Sua figlia che dice “mi manca tremendamente”.  Parla poco l’Italiano, ma apre spesso gli occhi in un’espressione dolce e riservata cercando di capire quello che gli si stia dicendo.  Un po’ di barba che circonda il viso e la fede che lo avvolge nel mantello bianco della poesia.  Ladji è anche un calciatore, gioca in porta e, la leggenda vuole, che nessuno sia mai riuscito a segnargli.  Quanto si diverte la domenica mattina con gli altri ragazzi africani a giocare alla Faustina.  Si ritrovano lì, tutte le settimane per condividere e quando li si osserva sembra di fare un viaggio in Africa. Senegalesi, Gambiani, Ivoriani, Maliani, Camerunensi, Ghanesi, Togolesi… Un po’ li conosco, qualche viso incrociato alla Mensa, altri li ho intervistati per il giornale locale.  Si scordano le fatiche settimanali e anche se tutti sudati e sporchi, alla fine si sorride e si rende grazie.  Grazie alla vita, ai sogni appesi sui fili della sera. Ladji è come un compagno di viaggio che sa ascoltare, di cui si sa che si può contare sempre, nonostante tutto.  “Se hai bisogno me lo fai sapere” mi dice.

Dovrei essere io a fare lo stesso per lui. Ma quanta umiltà c’è nella fede che va oltre ogni ostacolo, che vive nella povertà e nella solitudine, che consente di stringere in un abbraccio la malinconia.  Ce lo insegna Lazzaro, l’ultimo degli ultimi, Ladji che ogni mattina si sveglia alle cinque prende la sua bicicletta e da Lodi pedala fino a Massalengo per andare a lavorare.  Ce lo insegna Jimmy che bestemmia davanti al prete  che gli offre la frutta e quest’ultimo si offende. Un tempo nelle cascine la bestemmia dei vecchi era un modo per chiamare Dio, non sapevano come farlo, non riuscivano a esprimersi in altro modo.  Quanta fede nei calli sulle mani, nel sudore del grano e del pane, nella vita dei campi, nei campi di grano.  Non mi danno fastidio le parole di Jimmy perché so che in un certo senso anche lui sta cercando Dio, lo chiama, è sullo stesso calvario, sulla via della croce.  Lo insegue, alza gli occhi al cielo.  Karamoko Ladji nella sua tenerezza e sensibilità si apre il mio cuore con il coraggio e la forza della fede, si scopre nell’abbraccio dell’amicizia e del tempo che continua a passare, inesorabilmente. Scrivo altri versi pensando a Ladji e al nostro condividere.

Ritrovami la poesia quella che ho perso nei cassetti del cuore quella caduta con le ultime gocce di pioggia perduta sui fili del tempo nascosta negli occhi del mare ritrovami la poesia tu che sai cercare amico che osservi la vita nell’ultimo cerchio che mangi alla mensa di Dio ricordami il nome del pane la voce dell’uomo  dell’ultimo sole rubato.   Come si fa a scrive

re storie, a osservare i volti e la vita, a ricercarsi anche quando c’è il silenzio, l’attesa, la magia del frammento del desiderio e del sorriso? Poi c’è Moussa, un ragazzo senegalese che ho conosciuto sempre grazie alla Mensa e al giornalismo. Sincero, umile, determinato, con una passione grande: il calcio.  Per lui esiste solo quello e sembra che in Senegal giocasse anche ad alti livelli, così racconta.  Guarda le partite dappertutto, appena ha un attimo di tempo libero tira fuori il telefonino e non stacca gli occhi, mai.  Durante la colazione in dormitorio, tra un sorso di caffè e un altro, mentre lava i piatti nel ristorante in cui lavora, o alla sera con gli amici.  Lo gioca anche. Grazie all’aiuto di Ibrahima Fofana, un procuratore che permette ai calciatori africani di inserirsi nel calcio locale, ha iniziato a militare all’Edelweiss.  “Il calcio è la mia vita – afferma – è sempre stato un sogno, una prospettiva, un desiderio quello di diventare un grande calciatore, non so se lo voglio abbandonare”. Moussa è arrivato in Italia, da solo, nel 2015, ha trascorso due anni qui, poi si è trasferito in Spagna e nuovamente a Lodi.

“Ho trovato da subito un luogo dove stare: il ponte della tangenziale, appoggiato sull’Adda. Insieme a tanti che, come me, cercavano un futuro migliore e non l’avevano trovato”.

Ancora “quante volte abbiamo dovuto sgomberare: arrivava la polizia a dirci che lì non saremmo potuti stare, ma dove dovevamo andare? Era la nostra casa”.  Successivamente Moussa grazie alla Caritas Lodigiana è entrato a far parte di un progetto di Housing e oggi vive insieme a Tatiana e Isacco, una coppia che lo sta aiutando a crescere in modo sensibile e attento.  Se lo ricorda il Senegal come se fosse ieri, non può abbandonare l’immagine di una terra così feconda, che ama in modo sconfinato “Sono nato in un villaggio Medina Ibrahima Diallo, lì lavoravo insieme ai miei genitori nei campi. Ho trascorso un’infanzia felice, nella pace e nella tranquillità, ricordo ancora i tanti bagni fatti in un lago lì vicino. E’ all’età di otto anni che, purtroppo, mi sono trasferito a Saint Louis, a 250 km da Dakar, per studiare in una scuola coranica”. Se dovessi chiedere a Moussa con il suo sguardo furbo e astuto cosa sognasse per il futuro, la risposta con la voce flebile e calda sarebbe questa: “voglio avere una vita tranquilla, senza problemi”.

Moussa è un giocoliere del destino, uno che ci sa fare con i piedi, ma anche con le parole, che tratteggia speranze e tira fuori dal cassetto dei ricordi le emozioni più sincere dell’Io. Eccola la vita trascendente, che scaccia via la tristezza di un tempo materialmente determinista e meccanicista e ritrova il finalismo della natura negli angoli sconosciuti dell’esistere. Ecco la magia del pallone, che tesse relazioni, incontri, racconti senza fine. Che permette di alzare lo sguardo e osservare il cielo, limpido all’orizzonte, pulito, con le nuvole appese sui fili del sole.

Ascolta l’episodio anche su Spotify

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