Capitolo 1: Cristo e il pane della gente

  • 4 Settembre 2023

“Torneremo di nuovo ai progetti riguardo al nostro futuro
Guardando annunci sui giornali, girando per le agenzie
E avremo nuovi amici vicini a nuovi amori
E poi soli di sabato in questa città”

Franco Battiato, Gente in progresso

Si affaccia su Via XX Settembre la porta d’ingresso della Mensa Diocesana gestita dalla Caritas Lodigiana con Progetto Insieme. Si getta sulle strade, i marciapiedi, la piazza, il fiume e i balconi delle case. I profumi, i ricordi, i sorrisi, i volti, le immagini e poi ancora, quello che resta e che non c’è più, che sembra poco, ma si snoda sulle prospettive dell’esistere, dell’esser-ci heideggeriano come prossimità sociale, possibilità più vera per andare oltre il nichilismo. L’unico modo, scrive il filosofo, per uscire dalla logica nichilista della società, è la poesia. La parola come spazio denso senza fine, di ricerca nel silenzio e nell’incontro con l’altro, che scava il porto sepolto del nostro cuore e ci fa sentire docili fibre dell’universo.

Scardinare ciò che è consueto, concreto, materiale, ciò che viene considerato come proprio e senza fine, che deve avere il coraggio di andare al di là del dolore, dell’incertezza, dell’impossibilità, dell’abisso del nulla, che per Nietzsche diventa la certezza radicale per dire di sì alla vita, quel sì colmo d’amore. Quella parola che vibra d’inchiostro, sui fili dei panni stesi, che si avvolge là all’addiaccio, nel campo deserto del sole che nasce e che muore, nella parentesi della vita così breve e così lunga, incerta, lasciata alla fragilità, al destino.

Si affaccia su Via XX Settembre la Mensa Diocesana e abbraccia l’imponente edificio razionalista del Seminario Vescovile, dove si coltivano speranze. E’ proprio da quel portone che ogni giorno entrano Jimmy, Omar, Mamadou, Lamine, Amidou, Diamanka, Tsing, Beppe, Ivan, Konateh, Ibrahim e tutti gli altri visi, con le loro storie, vissuti, dolore, speranza, possibilità. Con la malinconia negli occhi, qualche volta allegri, assonnati, raccolti in un’espressione strana tra il vuoto del non senso e la fragilità della follia. Non c’è messaggio più profondo se non quello del Vangelo che si inserisce ogni volta tra i pezzi del pane spezzato, le brocche d’acqua e i tavoli che compongono la sala da pranzo.

E poi soli di sabato in questa città

Foto di Ermanno Merlo

Si radica con le parole e la forza di Cristo, di quella croce appesa al muro che mi ricorda, quando la guardo, il coraggio non solo di un uomo che ha sacrificato la propria vita per l’umanità, che si è portata addosso il peso del peccato, ma soprattutto l’umiltà di Simone di Cirene. Un ragazzo, semplice, senza niente da chiedere, da lasciare, da volere che, durante il calvario, viene chiamato per aiutare Gesù a portare la croce. E’ in quel gesto così colmo di responsabilità, di incontro, di relazione, di solidarietà, di commozione senza fine, che si stagliano le pagine della Sapienza, l’amore misericordioso di Dio che può salvare anche dal dolore più grande: la morte. Che ci permette di andare al di là di quello che non c’è più, di chiedere responsabilità, perdono, di seguire quell’uomo così nobile, come avrebbe scritto lo stesso Nietzsche, che con la sua morte ha dettato la via da seguire, da cui purtroppo ci siamo sempre di più allontanati.

Vivi le tue opere con mitezza, scrive il Siracide.

Che bello, vivere il proprio tempo nella consapevolezza del non dire per forza io devo, ma io sono. Per ricercarsi in quella prospettiva del profeta Isaia “Io sono prezioso ai tuoi occhi”. Non c’è bisogno di nient’altro, se non di quel desiderio di essere preziosi agli occhi degli altri, di vibrare nel tutto con la passione ardente del cambiamento, con il sacro fuoco dell’anima come unica possibilità, colma di mistero e di significato. Vivere le proprie opere con mitezza, senza rifugiarsi nel determinismo, nel baratro dell’ateismo, nel consumismo soggettivista e relativista. E’ la verità assoluta di Dio, che si ritrova negli ultimi, nei soli, nella parola di chi non ha niente, nella certezza di essere in eterno movimento senza fine.

Così come Spinoza e quella forza ontologica tanto grande che forma le cose, che dà vita anche a tutto ciò che è materia, concretezza, impossibilità. Si forma l’amore di Dio frammento dopo frammento, passaggio nel crescere più vero dell’esistenza. Esistere come foglie d’autunno cadute, nel cerchio di un altro mattino, nella prospettiva filosofica della domanda che è logos, pensiero, anima, concetto formato dalle ceneri del contenuto, per il viaggio senza fine del sapere. Imparare a trattare gli altri come fini e non semplicemente come mezzi, in Kant nella sua Fondazione della Metafisica dei Costumi. L’altro è un mio fine, non mero mezzo, non logica strumentale che sottomette il pensiero, che non lascia alla ragione neanche il pregio e il lusso del disinteresse. Sono i pori diauli, coloro che vivono all’addiaccio, sotto un ponte, nella periferia del tempo e del ricordo, con cui si riesce a ritrovare un messaggio nuovo, vero, vivo, consapevole dell’energia del tempo e della possibilità.

E poi soli di sabato in questa cittò

Foto di Ermanno Merlo

Il Vangelo è lì quando Jimmy entra in Mensa bestemmiando un pezzo di pane, negli occhi del pescatore Pietro, in Maddalena, nell’ultimo degli ultimi. Cristo insegna a lasciare il cuore sempre aperto, colmo d’amore, vivo nella necessità. I Farisei così pieni di dottrina, di risposte invece non hanno accettato Gesù, hanno preferito dire di no alla vita, essere come gli altri, parafrasando Soren Kierkegaard. Chi prova disperazione, secondo il filosofo di Copenhagen, sono proprio quelli che non vogliono attingere da quell’unica fonte da cui si può attingere acqua, che non hanno il coraggio di abbracciare l’amore misericordioso di Cristo, così come i Farisei, coloro che non hanno la forza di chinarsi e lavare i piedi degli altri, donare la misericordia dell’amore eterno a chi crede nel corpo come unica soluzione, a chi non vuole trovare la strada di casa. Kierkegaard, il poeta cristiano, il Cristianesimo è morto, scrive, per riaverlo bisogna spezzare il cuore di un poeta e quel poeta sono io. La nostra rivoluzione della poesia come arte che insorge è quella del continuare a farsi domande, senza credere di aver raggiunto il sapere assoluto, di continuare a scoprirci nello spirito come Io che è Noi e Noi che è Io, alla Hegel, con processi dialettici nuovi, di indagine, di rinascita.

Osare essere guerriglieri non violenti, seminare parole come campi di grano di maggio, diventa il simbolo più vero della fioritura dei versi, di quello che non abbiamo, che non si sente, che fa fatica a ricercarsi negli anfratti più soffusi di mistero dell’esistere. E’ alla mensa che ogni servizio compone un viaggio nelle parole e nei ricordi, passando dal dialetto lodigiano, al Wolof senegalese, al pulaar guineano, o all’arabo.

Un viaggio in Africa e a Lodi, come ponte di passaggio, una scala che congiunge l’anima con l’assito, il prima con il domani, il passato e il presente. Scrive Sant’Agostino, passato e futuro sono nell’anima, nella percezione di quello che sentiamo, di quello che è vivere l’Oggi, come bocca colma di fiato, come sorriso al tramonto, nella nebbia che avvolge la campagna, che si raccoglie nelle prospettive del cammino. Tolle lege, tolle lege, tolle lege, prendi e leggi, sono le parole che testimoniano la conversione di Agostino al Cristianesimo, agli insegnamenti di Cristo, alla consapevolezza che domani sia migliore, alla fede. Vivo nel dolore, riesce a ritrovare la luce, la speranza, la malinconia del tempo che non ritorna, si fa strada in quello di cui abbiamo bisogno, che resta un segnale importante per continuare a riconciliare noi stessi nell’arte della fragilità e della malinconia, nella parola come quaestio senza fine. Il viaggio nelle immagini della Caritas inizia quando essere volontario non è una separazione dalla vita privata, un trofeo da esibire, un titolo onorifico da sbandierare ai quattro venti, ma semplicemente un unicum, una sorta di carmen continuum, la persona che si forma e cresce al di là del mero individuo. Così come scriverebbe lo stesso Jacques Maritain in Umanesimo Integrale la persona deve riconoscersi tale nella verticalità della croce e nella fede che diventa fondamento di socialità ritrovata. Così come lo è quando ci si siede ai tavoli per scambiare quattro chiacchiere, quando ci si ferma un po’ di più per preparare la frutta per il giorno dopo, quando si condividono anche i piccoli momenti di quella che per noi è solo quotidianità. Ma si fa speciale.

Trascorrere qui il proprio compleanno in un sabato sera di fine giugno, rimanendo poi a mangiare un gelato, seduti ai tavoli, avvolti dalla luce della sera, o ancora vivere insieme a loro il Natale, la Pasqua diventa un modo per dire “tu sei prezioso ai miei occhi” e lo scopo della vita fragile e insicura, si riconosce nella possibilità di attraversarne le epoche con i fiumi del continuo ricercarsi e credere, con le consapevolezze del poter continuare a scrivere e a pensare. Ma, anche passarvi l’ultimo dell’anno è stato un messaggio colmo d’amore e di significato.

L’ultimo giorno dell’anno è un giro di boa, è avere la consapevolezza che poi quello dopo non sarà tanto diverso dal giorno prima, da tutti quelli vissuti e che ci saranno da vivere, ma è segnare i passaggi più concreti e incerti del nostro vivere e avere paura, soffrire e poi riconciliarsi, ancora piangere e sorridere, abbracciare la notte e le stelle del cielo, raccolte nelle borse del ponte, alle sponde del fiume, appesi gli stracci e i ricordi, vivi gli incontri e i tramonti d’estate. Mentre nelle case affollate si preparavano i cenoni, i brindisi, i regali, le candele illuminate, le tavole imbandite e apparecchiate a festa, ai margini c’era chi viveva quel giorno come qualsiasi altro, girando la città, fermandosi su una panchina, o davanti all’ospedale a guardare le macchine passare, chi pedalava sulla sua bicicletta, chi con la testa sui giardini dell’erba appassita, fino a trascinarsi poi al portone della Mensa per il cenone.

Niente brindisi però, alle 19:45 ancora fuori e altri giochi di tempo per prepararsi alla notte, senza aspettare la mezzanotte che tanto oggi è solo il domani di ieri.

Ermanno Merlo

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