Sono giorni di subbuglio alla Mensa del pane spezzato, movimentati, colmi di tempo. C’è il furto di un cellulare, le lacrime di chi l’ha perso, l’intervento della polizia per verificare l’accaduto e Giselle che si preoccupa di mettere a posto ciò che è rimasto in sospeso, anche con del buon cibo. È una cuoca sopraffina e le piace mangiare. Nella sua cucina ci sono i sapori della terra: il Camerun, il profumo dell’Africa, ma anche la tradizione italiana. Ripenso alle lasagne che prepara e alla meravigliosa torta di banane, che si scioglie in bocca in un sapore intenso e avvolgente. Ma anche il peperoncino che, qualche volta, mi porta in dono. Un forte trito con olio e altre spezie che si può unire a primi e secondi piatti. Lascia la bocca senza parole. Qualche volta durante i servizi, seduta alla sua postazione, ne approfitta per cenare. Molto spesso, infatti, finito il lavoro in Caritas la giornata continua, perché deve fare il turno di notte come badante in una casa privata. Scatoline di riso, sciroppi, tisane con il limone, macedonie. Ogni volta dal suo zaino provengono storie e sapori che sciolgono il cuore. Questa sera, mentre siamo intenti a sistemare la frutta, tira fuori dalla borsa un sacchettino con dentro delle piccole palline fritte di pasta frolla “assaggia, sono buonissime” dice mentre ne manda giù due o tre. In effetti è vero. Mi lascia le restanti da portare a casa, così alla sera le accompagno con un po’ di gelato fresco per alleviare i pensieri.
Ci sono anche gli aperitivi alla Mensa dove tutto si consuma, in attesa dell’arrivo degli ospiti. Una domenica a pranzo stiamo portando le brocche d’acqua sui tavoli, quando Giselle nota nella mia bisaccia un pacchettino. “Cos’è?” chiede incuriosita. “Un salame artigianale che fa un signore che abita a Maleo” le dico. “Eh, apriamolo!”. Così prende il tagliere, inizia a tagliarne qualche fetta e lo accompagna con il pane. I volontari si accodano a lei e pezzo dopo pezzo rimane solo la carta stagnola che lo avvolgeva. “È buonissimo, la prossima volta prendine uno per me” commenta divertita. Come in un sabato sera, quando si accorge di un sacchetto di carta, lo apre e trova delle ciambelle al cioccolato. “Posso?” “Certo – le faccio eco – le ho prese apposta”. Sono i sorrisi che liberano la mente dal dolore del continuo cambiamento. Quello che eravamo, che abbiamo smesso di essere, che ci circonda come nebbia d’inverno sulle strade della provincia abbandonata, nelle cascine senza nome, nei sogni appesi sui sassi della piazza, del fiume. Poi ci sono i giorni di Omar che da qualche settimana ha ripreso a parlarmi. Ha capito, forse, di aver sbagliato con la macedonia, o probabilmente si è solo dimenticato, nei pensieri che sono la certezza della non identità, il progresso della gente sola. Inviolabili nel viaggio invisibile dell’umanità, sulla via del peccato. Adesso si alza e viene a prendersela, o meglio manda qualcuno per lui.
Sono passi avanti sulla strada del non ritorno, anche se è difficile, anche se la mente vacilla appesa su un filo. Poi, in questi strani giorni, c’è anche Kabu che, tra le fatiche del vivere, diventa un altro punto in sospeso del mutamento del mio divenire, si confonde nel dialogo antropologico dell’io, si riconosce nelle angosce del deserto annuale del tempo senz’acqua. Ancora non ho capito come fare capolino nel suo cuore, come cercare di costruire lo stesso futuro con le mani e i sandali vuoti. Ma ci vuole tempo. La vita è questo continuo passaggio che abbiamo dentro, è l’attesa della morte, della libertà eterna. Quando l’anima sarà finalmente libera nessuno potrà mai tenerci legati alle ipocrisie illusorie materialistiche e meccanicistiche dell’esistenza. Canteremo il canto e cammineremo sulle strade d’autunno, berremo dalla fonte eterna dell’acqua trasparente, dei fiori di tigli di pesco. Tornano alla mente i versi di Andrea Maietti, poeta e scrittore lodigiano, interprete profondo e vero della nostra terra, fatta di poco, di fatica, di sudore, di pane spezzato, di solidarietà, accoglienza, abbraccio sincero che scalda e avvolge nel manto bianco. È così che lo leggo, che sento nella speranza di vivere, della sua scrittura, il ricordo che lascia sbiadito il segno di quello che non c’è più. Così avrei voluto vivere, specchiando la fatica del giorno nell’acqua operosa della Mia Bassa. Reggendo il tempo con saggia pazienza come un antico tronco di riva. Andarmene con un guizzo di sole nel cielo placato di rondini fedeli alla festa di primavera. Così avrei voluto vivere, sognando l’Africa, nell’acqua operosa della Bassa, specchiando lì la fatica del giorno, l’ultima spiga di grano. Il tempo è un tronco di riva, come le barche e i gabbiani, come i sogni che non tornano più. Vorrei andarmene con quel guizzo di sole, con la sua luce che brilla sui sassi dell’Adda, in una casa del Borgo, nella tranquillità illusoria della pace dei sensi. Cheick Macoumba Diack, Kabu, mi lascia sempre senza parole, perché non riesco a capire se nel suo zaino dei pensieri ci sia anche io. Allora leggo e scrivo. Quella poesia fatta di carta e di silenzi che scalda il cuore, che si raccoglie là dove nessuno vede, negli sbagli e nelle emozioni. Altri giorni mi sono toccati. E non avrei più il cuore e la mani per la vita frugale dei padri. La miseria alle spalle e il sudore da schiavo e l’ignoranza, forse. Mi sono toccati altri giorni, quelli strani, quelli in cui sembra di non avere più il cuore e le mani.
Indifesi, in eterna attesa. Intreccio di anima e futuro. Ma ci ricorderemo di noi, delle nostre aspettative, dei fiori non colti, di quello che non abbiamo più. Così come con Mamadou, giovane senegalese, che quando viene a fare la doccia al dormitorio di Via Defendente, dove vive, dopo essersi lavato, si sdraia sul letto di un suo vicino di stanza. “Amelia si arrabbia sempre – mi confida – ma noi siamo africani, non ci dà fastidio, questo è normale”. “Ma che normale e normale – dice lei con rabbia gentile – Mamadou sembra tanto bravo, poi però fa quello che vuole lui!”. Allora, un lunedì di fine agosto mi infilo piano nella stanza. È ora di andare a mangiare, devo svegliarlo. Gli occhi socchiusi e le braccia dietro al capo. “È tempo di uscire amico”. “Va bene Ermando” mi risponde lui. Poi si alza e si dirige verso il suo letto.
Apre la cassapanca che è l’armadio e tira fuori una cartelletta nera, dove sono contenuti 114 libretti, con delle scritte in Arabo. Capisco subito: è il Corano. Così lui li seleziona, ne prende qualcuno, li infila nello zaino e gli altri li ripone nuovamente al loro posto. “In questo modo quando sono fuori leggo. L’ho preso in Senegal, è un ricordo che non voglio abbandonare.” Le pagine sono consumate, gialle, le scritte sbiadite. Ma c’è la memoria, la voce, il canto, la fede, quella speranza che continua a farci commuovere, che ci dona la responsabilità di aspettare la sera.
È il battito forte e sincero della vita che si fa sentire, nonostante le domande, le incertezze, le risposte che non si troveranno mai. Quello di Amidou che mi saluta sfrecciando in bicicletta in Piazza Barzaghi, mentre sto aspettando al semaforo di attraversare la strada e osservo l’ultimo addio che alcuni parenti stanno rivolgendo in lacrime a un corpo freddo dentro la bara di legno, davanti alla Chiesa del Borgo. Un bambino si appoggia alla spalla del genitore. È annoiato, indifeso, incerto. La morte quella che ci trascina, che ci porta lontano, che è solo il passaggio a una vita nuova, più colma.
Dovremmo imparare a viverla come in certi posti dell’Africa, cantando, accogliendola a braccia aperte, con i balli e i suoni dei tamburi. Il problema è che la nostra società poco ci prepara alla sorte comune, ci illude di immortalità, ci fa sentire onnipotenti e quando cadiamo restiamo soli. Il consumo, la pubblicità, il desiderio continua a essere stimolato, senza dare spazio e voce alla nera signora. “Una cosa giusta ha fatto il Signore a questo mondo”.
Si diceva una volta nelle case dei poveri. Non c’erano altri strumenti, altre parole per sottolineare che alla fine l’amore misericordioso di Dio sarà la sorgente eterna della salvezza nuova. O ancora, quando lo incontro nuovamente dopo qualche ora Amidou, sempre sulla sua bicicletta, insieme ad un amico “stiamo arrivando in Mensa, aspettaci” mi dicono. “Eh non ci sono questa sera…” “Domani sì però, vero?” mi chiede Amidou. È il segreto che ci portiamo nel cuore, quello che è il pianto e la sete, il ricordo e il destino, il continuo cammino dell’universale. Il cibo condiviso alla Mensa che diventa paradigma d’incontro più vero, certezza e strada bagnata d’inchiostro. La voce della nostra vita che ci guarda da lontano e sa di profumo, che è eterno ritorno uguale, verso un destino che ancora non sappiamo.
Così Nietzsche Tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi. L’uomo secondo il filosofo deve accettare il suo continuo essere nel mondo, dire quel sì colmo d’amore alla vita, ritrovarsi nell’azzurro del cielo. Abbandonare le vecchie catene, infrangere gli antichi ceppi e dire quel sì colmo d’amore alla vita: questo è l’Oltre uomo. La volontà di potenza lo spinge a compiere il passo in avanti verso il destino, riconoscendo in sé quello che non c’è più, prendendo consapevolezza della trasmutazione di tutti i valori. Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso! Dio è morto perché l’uomo ha pensato di poterne fare a meno.
Ci vorrebbe nella vita qualcosa che sappia veramente scaldarci il cuore, così come nella poesia enigmatica di quel libro per tutti e per nessuno, che aveva nelle pagine il coraggio di stupire, il desiderio del nulla e la consapevolezza per l’uomo di non essere arrivato, ma di dover continuare il cammino della parola.
Con la speranza e la nostalgia del poeta, che stanno lì, alla Mensa, negli occhi di Amidou, nella sua strada profonda, nel Corano di Mamadou, nella voce calda di Amelia, nei sogni da non calpestare.
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