Essere sé stessi, presso l’Altro. Mensa!

8 Gennaio 2021

Zaino in spalla, bicicletta, in sella. Ci avrete sicuramente notato. Ci chiamano stranieri, ci chiamano poveri, ci chiamano ultimi. Viviamo anche noi in questa grande giungla intricata che chiamano città. Certo, a volte stiamo ai margini, quasi a non dare fastidio, o forse per evitare ce ne diano. Non fa molta differenza. Ma sono certo che ci avete notato. Siamo sempre in movimento. Avanti e indietro, su e giù, nel senso giusto o contromano. Ci portiamo dietro il nostro bagaglio di sogni e consegnamo il vostro carico di merci. Pochi spiccioli a tratta, è vero, ma meglio di nulla. È ciò che ci permette di andare avanti. Chi si ferma è fregato. E noi non ci fermiamo mai. Seguiamo il sole e le stagioni, attirati dai germogli e dalle gemme degli alberi, da nord a sud. C’è sempre qualche raccolto che ci aspetta. Arriviamo con la frutta matura e ripartiamo quando i rami sono più leggeri. Pochi spiccioli a cassetta, è vero. Ma spesso alternative non ce ne sono. Un passo alla volta, mi dico sempre. Arriverà qualcosa di meglio.

I più fortunati di noi lavorano di notte, nei magazzini. All’inizio ti fanno un contratto di tre giorni. Arrivi col tuo carico di aspettative e speri non ti scarichino subito. Sempre di carico e scarico si tratta. Se sei bravo e fortunato passi di livello: contratti decadali. Prendi e metti nello zaino, è un lusso non per tutti. Ogni mattina ti svegli e conti ciò che ti separa dalla gloria o dalla dannazione, un grano alla volta. Se solo quella maledetta proroga arrivasse! È come un lungo rosario, dopo uno o due mesi potresti anche ottenere la grazia e la consolazione: un bel contratto a tempo determinato. Ma mica lavoriamo sempre noi. Altrimenti non saremmo persone senza dimora. Spesso il lavoro è una parentesi tonda nella nostra vita angolosa. Sveglia all’alba, prendi il treno, corri al freddo, cerca un bagno, vaga in strada, sosta in mensa. Mangia, cerca e prega… Mangia, cerca e prega… Mangia, cerca e prega… E Poi ricomincia da capo.

Pensate sia facile?

Non lo è, soprattutto in questo tempo di covid. Provate voi a non avere una casa e aver bisogno del bagno in un giorno di festa, o in zona arancione, o peggio ancora in zona rossa. Scegliete voi il colore, il risultato è sempre uguale. Prima, almeno, si poteva entrare in ospedale, senza dare troppo nell’occhio, riposarsi un po’, prendersi un caffè alle macchinette. Ora hanno chiuso anche quello. Fanno controlli all’ingresso, sapete? Così ti tocca per forza tenertela e aspettare che apra la mensa.

La mensa! Mi piace la mensa, mi è sempre piaciuta. Sai che è lì, tutti i giorni dell’anno. Neve, sole, pioggia, vento, a mezzogiorno e alle sette di sera trovi quel grande portone di legno aperto, anche se fuori è tutto chiuso, tutto fermo, indifferente e lontano come solo una città in tempo di covid sa essere. È vero, per tanti mesi non ci hanno fatto entrare a mangiare. Potevamo solo ritirare dei sacchetti. Ci arrangiavamo andando al parco, sulle panchine o sotto qualche portico. Giorni lunghi, giorni tutti uguali. Dovevamo anche stare attenti alla polizia. Andate voi a spiegagli che un povero la casa non ce l’ha e deve stare per forza in giro tutto il giorno. Ma cosa volete, noi ci siamo abituati a questa vita. Ora però è diverso. A novembre la mensa ha riaperto. Ed è stata una fortuna, perchè iniziava a fare freddo, quel freddo umido che ti entra nelle ossa e arriva fino alla testa, quel freddo che non ti fa togliere il giubbotto dal momento in cui ti svegli a quello in cui torni a dormire. Ci sono un sacco di regole nuove da seguire adesso. Li chiamano protocolli anti-covid, credo. Non ci capisco molto di queste cose, però so che devo stare attento ad arrivare all’orario giusto, indossare la mascherina, usare il gel per le mani, etc. etc. Era meglio prima, certo, ma io mi sforzo di fare tutto quello che dicono. Almeno si può stare un po’ al caldo e fare due parole con i volontari, che invece lì fuori non ti dà mai retta nessuno.

Il lunedì, per esempio, c’è sempre quel signore con gli occhiali spessi. Mi guarda ogni volta con quello sguardo tra il burbero e il complice, e mi fa sempre la stessa battuta. E io tutte le volte rido. In fondo è gentile, non voglio mica deluderlo. Per salutarmi mi assesta una pacca sulla spalla (ma lo saprà che con il covid non si può?), e quel breve contatto mi dà una scossa, come fosse un filo elettrico, e mi fa uscire dal portone con un senso di pienezza che il cibo da solo non può dare. Tra la pancia e il cuore scelgo ancora il cuore, non sono mica matto. Non ancora, almeno!

Il venerdì c’è l’altro, il signore con la barba lunga. Se sei bravo riesci a farti dare un paio di yogurt in più, oppure un frutto da tenere per il giorno dopo, quando i bar sono chiusi e non hai un centesimo in tasca. A volte porta addirittura dei dolcetti. Lui distribuisce contento e tu ci guadagni la colazione. Ultimamente, poi, è arrivato uno nuovo, ho sentito che è stato anche in carcere. Può uscire di casa solo per venire qui. Chissà cosa avrà fatto, sembra così bravo. È quello che si dà più da fare a pulire, spazzare, sistemare. Non parla molto, ma nei suoi occhi vedo sofferenza e speranza. Credo ci capisca meglio di tutti. Sono proprio strani questi volontari… Ah poi c’è la ragazza con le trecce, anche lei è arrivata da poco. Pare sia arrivata per caso, non per scelta: lavori socialmente utili. Non stavo origliando, giuro! L’ho sentito mentre passavo per riconsegnare il mio vassoio vuoto. Ha combinato qualcosa, credo, e per punizione l’hanno mandata qui a servire noi. Io però vedo che si diverte, ha sempre quel sorriso sotto la mascherina, mentre sistema piatti e posate, e parla e scherza con gli altri che fanno servizio. Ogni tanto ci saluta da dietro il bancone. Si vede che è un po’ timida, ma a noi fa piacere lo stesso un piccolo gesto, ci fa sentire meno soli.

Io comunque li abbraccerei proprio tutti i volontari (lo so che non si può, ho imparato le regole ormai, dico per dire!). A volte penso che vorrei conoscerli meglio, sapere come vivono, dove lavorano, cosa fanno nel tempo libero. Cosa c’è di male? Non respiriamo forse la stessa aria, non sentiamo gli stessi profumi, non calpestiamo la stessa terra, non condividiamo la stessa mensa? Sono certo che anche lo loro vorrebbero conoscermi meglio, sentire le mie storie, sapere qualcosa della mia famiglia e di quando avevo una casa e di come sono finito qui, e via dicendo. Anche voi siete curiosi, ci scommetto! Beh un giorno vi racconterò tutto, tranquilli, e voi mi magari racconterete tutto. Ora però devo proprio andare, mi dispiace.

Zaino in spalla, bicicletta, in sella.

Luca Malberti, operatore Caritas, referente mensa.

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