Volunteers Day_Story #3

  • 30 Novembre 2020

Ingrid è stata attiva nel Servizio Civile e volontaria in Caritas Lodigiana nei progetti di sensibilizzazione nelle scuole.

«C’è qualche volontario?» chiede ogni tanto la maestra alla propria classe. E subito ecco qualcuno che allunga la mano impaziente per svolgere un’attività “extra”, come andare a fare le fotocopie, andare a chiamare la bidella, scrivere alla lavagna ecc. Nelle classi dei più piccoli quasi tutte le mani si alzano, più si cresce, invece, diminuisce l’impeto della volontarietà per lasciare posto all’inerzia della pigrizia e/o dell’indifferenza. Ebbene, nell’età adulta le mani rimangono perlopiù abbassate, perché le cose da fare aumentano sempre di più e “non si ha più tempo”. «Non trovo la voglia di lavorare o di svolgere le mie attività quotidiane, figuriamoci offrirmi per aiutare qualcun altro e pure gratis» pensiamo.

Aiutare presuppone anche amare e amare non è proprio una cosa da niente, anche se spesso la fanno passare per tale. Per amare intendo amare incondizionatamente, ovvero dare, senza aspettarsi di ricevere assolutamente nulla in cambio.

“Fare la volontaria con Caritas per me ha significato e significa proprio questo. Non aspettarmi nulla, né gratitudine, né parole di apprezzamento, niente di niente. Eppure, magicamente qualcosa in cambio arriva sempre”.

Il bene che fai ti ritorna, è proprio così. Fare il volontario è una scelta e chi la compie forse ama sé stesso un pochino di più rispetto a quanto facciano gli altri, perché lo fa anche per sé stesso. E questo in quanto, in fondo, sa che il valore di quello che gli ritorna donando incondizionatamente è imparagonabile a quello dei soldi ma è sicuramente maggiore. I bambini che si offrono per fare qualcosa, infatti, lo fanno perché vogliono essere al centro dell’esperienza che viene loro proposta, vogliono viverla a tutti i costi e non pensano a nient’altro, è un impeto sul momento che non implica alcun ‘se’ o ‘ma’ e prescinde da qualsiasi altra attività che svolgono, perché -anzi- questa è diversa, nuova e rara e permette loro di mettersi in gioco. Fare la volontaria Caritas per me significa proprio questo, buttarsi, sperimentare, superare i propri limiti. Ho imparato tutto questo andando nelle scuole a sensibilizzare gli alunni, dai bambini della scuola materna a quelli delle medie, attraverso i progetti We need to seed e Come l’Okapi, su temi quali la solidarietà e l’inclusione, raccontando loro storie e stimolandoli con giochi di gruppo, che sottolineano l’importanza del contributo e del ruolo di ciascuno nella comunità; partecipando al doposcuola della parrocchia di S. Fereolo, prendendo parte alla raccolta alimentare e di materiale scolastico presso la Coop e all’iniziativa ‘Spezziamo il pane’.

Tutte queste iniziative sono rivolte a chi ha di meno ma anche a coloro ai quali solitamente non si pensa mai e che invece sono i soggetti più fragili della comunità e per i quali esse significano molto. Ho inoltre imparato che quando si fa volontariato non si può dare nulla per scontato e mi sono ritrovata a meravigliarmi di fronte alla diversità del genere umano; che la soluzione non è provare pena limitandosi a dare una pacca sulla spalla ma aiutare in maniera diretta e attiva, interessandoci a chi ci sta di fronte e ascoltando la loro storia.

Di questo ho acquisito piena consapevolezza partecipando all’iniziativa di Sconfinati, ideata da Caritas ambrosiana e poi adattata e riproposta nel lodigiano. È stata una delle esperienze più forti che abbia mai vissuto e che mi ha fatta sentire privilegiata rispetto a chi non aveva l’occasione di testimoniare una realtà diversa da quella a cui siamo abituati, tant’è che pensavo:

“Ecco cosa si perdono le altre persone, se solo sapessero…”

e allo stesso tempo, però, mi spronava a conoscere di più e far conoscere di più. Qui ho conosciuto i sopravvissuti ad un viaggio della morte, quello dalla Libia all’Italia, che da volti invisibili al telegiornale hanno assunto un’identità ben precisa, appartenente a persone che esattamente come me hanno sogni, desideri e speranze, nonostante gli innumerevoli soprusi subiti e che da profughi o immigrati sono passati a essere degli amici, i più coraggiosi in assoluto. Anche in questa occasione mi sono sentita parte di una rete molto compatta di persone che credono profondamente in quello che fanno, per le quali la carità è la propria filosofia di vita e che si impegnano in tutti i modi a diffondere il proprio messaggio, coinvolgendo anche noi giovani. Infine, sempre grazie a Caritas, ma in realtà per chi comincia a fare il volontario un ‘infine’ non c’è mai, ho avuto la fortuna di conoscere sei fantastici bambini e le loro rispettive mamme originarie della Nigeria, le quali, dopo varie peripezie affatto piacevoli, sono state inserite in una casa di accoglienza in una piccola frazione di Lodi.

Qui ho potuto toccare con mano quanto sia difficile avvicinare l’una all’altra due comunità completamente opposte e quanto la lingua giochi un ruolo fondamentale in questo. Ho imparato che ci sono traumi che se subiti sulla propria pelle sono difficilissimi da superare e che il ruolo di un volontario non potrà mai cancellarli ma perlomeno può aiutare a distrarsene e a riacquisire almeno un po’ di fiducia nel genere umano. L’aspetto più emozionante di tutte queste esperienze e il motivo per cui sono più grata a esse è il fatto che proprio come la mia famiglia, emigrata dalla Romania, ha ricevuto aiuto quando era appena arrivata qui in Italia, a distanza di anni anche io ho potuto contribuire a mia volta, nel mio piccolo, a dare una mano a chi ha più bisogno, ‘ricambiando’ così ‘il favore’.

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